Progetto di riflessione e di
ricerca sull'Insegnamento della Religione Cattolica nella Scuola Pubblica
della Classe 5F del Liceo
Scientifico Statale M. Malpighi di Roma 1996/97
Chiunque può intervenire con
osservazioni e
contributi che saranno inglobati nelle edizioni successive
Indice generale |
Composizione Classe 5F
| Comitato promotore
| Raccomandazione
generale
Sommario della parte 3 (Diritto)
Intesa Falcucci-Poletti del 1985 (DRP 751/85: testo integrale)
Sentenza Consiglio di Stato del 1988 (n. 1006 del 17.6.1988: corpo principale della sentenza)
Schema e commento alla sentenza del consiglio di Stato 1988
Sentenza della Corte Costituzionale 1989 (Sent. n. 203 del 11-12.4.1989: testo integrale)
Schema e commento alla sentenza della Corte Costituzionale 1989
Sentenza della Corte Costituzionale 1991 (Sent.
n. 13 del 11.01.1991:testo integrale)
Intesa Falcucci-Poletti del 1985
Intesa fra Ministero della
Pubblica Istruzione e Conferenza episcopale italiana, sull'insegnamento della
religione cattolica nella scuola pubblica, in applicazione alle clausole del
nuovo Concordato del 1984
DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 16 dicembre 1985, n. 751.
Esecuzione dell'intesa tra l'autorità scolastica italiana e la Conferenza episcopale italiana per l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visto l'art. 87 della Costituzione;
Vista la legge 25 marzo 1985, n. 121, recante ratifica ed esecuzione dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio l929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede;
Visto il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466;
Acquisita l'autorizzazione da parte del Consiglio dei Ministri nella riunione del 14 dicembre 1985;
Sulla proposta del Ministro della pubblica istruzione;
Decreta:
Piena ed intera esecuzione è data all'intesa fra il Ministro della pubblica istruzione e il Presidente della Conferenza episcopale italiana, firmata il 14 dicembre 1985. in attuazione del punto 5, lettera b), del protocollo addizionale dell'accordo firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, accordo ratificato con la legge 25 marzo 1985, n. 121.
I1 presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Roma, addì 16 dicembre 1985
COSSIGA
FALCUCCI, Ministro della pubblica istruzione
Visto, il Guardasigilli: MARTINAZZOLI
Registrato alla Corte dei Conti,
addì 19 dicembre 1985 Atti di Governo, registro n. 57, foglio n. 27
INTESA TRA AUTORITA' SCOLASTICA E CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA PER L'INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA NELLE SCUOLE PUBBLICHE.
IL MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE
quale autorità statale che sovraintende all'istruzione pubblica impartita in ogni ordine e grado di scuola, debitamente autorizzato dal Consiglio dei Ministri con delibera del 14 dicembre 1985 a norma dell'art. 1, n. 13, del regio decreto 14 novembre 1901, n. 466, e
IL PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
che, debitamente autorizzato, agisce a nome della Conferenza stessa ai sensi dell'art. 5 del su statuto e a norma del can. 804, par. 1, del codice di diritto canonico,
in attuazione dell'art. 9, n. 2 dell'accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana del 18 febbraio 1984 che apporta modificazioni al Concordato lateranense e che continua ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado,
determinano, con la presente intesa, gli specifici contenuti per le materie previste dal punto 5, lettera b), del protocollo addizionale relativo al medesimo accordo, fermo restando l'intento dello Stato di dare una nuova disciplina dello stato giuridico degli insegnanti di religione.
1. Programmi dell'insegnamento della religione cattolica.
1.1. Premesso che l'insegnamento della religione cattolica è impartito, nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni, secondo programmi che devono essere conformi alla dottrina della Chiesa e collocarsi nel quadro delle finalità della scuola, le modalità di adozione dei programmi stessi sono determinati come segue:
1.2. I programmi dell'insegnamento della religione cattolica sono adottati per ciascun ordine e grado di scuola con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro della pubblica istruzione previa intesa con la Conferenza episcopale italiana, ferma restando la competenza esclusiva di quest'ultima a definirne la conformità con la dottrina della Chiesa.
Con le medesime modalità potranno
essere determinate, su richiesta di ciascuna delle Parti, eventuali modifiche
dei programmi.
1.3. Le Parti s'impegnano, nell'ambito delle rispettive competenze, a ridefinire entro due anni dalla firma della presente intesa i programmi di insegnamento della religione cattolica, tenendo conto anche della revisione dei programmi di ciascun ordine e grado di scuola, e a definire entro sei mesi dallo stesso termine gli "orientamenti" della specifica attività educativa in ordine all'insegnamento della religione cattolica nella scuola materna.
Fino a quando non venga disposta
l'adozione di nuovi programmi rimangono in vigore quelli attualmente previsti.
2. Modalità di organizzazione dell'insegnamento della religione cattolica.
2.1. Premesso che:
a) il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica assicurato dallo Stato non deve determinare alcuna forma di discriminazione, neppure in relazione ai criteri per la formazione delle classi, alla durata dell'orario scolastico giornaliero e alla collocazione di detto insegnamento nel quadro orario delle lezioni;
b) la scelta operata su richiesta dell'autorità scolastica all'atto dell'iscrizione ha effetto per l'intero anno scolastico cui si riferisce e per i successivi anni di corso nei casi in cui è prevista l'iscrizione d'ufficio, fermo restando, anche nelle modalità di applicazione, il diritto di scegliere ogni anno se avvalersi o non avvalersi dello insegnamento della religione cattolica;
c) è assicurata, ai fini dell'esercizio del diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi, una tempestiva informazione agli interessati da parte del Ministero della pubblica istruzione sulla nuova disciplina dell'insegnamento della religione cattolica e in ordine alla prima attuazione dell'esercizio di tale diritto;
d) l'insegnamento della religione cattolica è impartito ai sensi del punto 5, lettera a), del protocollo addizionale da insegnanti riconosciuti idonei dalla competente autorità ecclesiastica,
le modalità di organizzazione dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche sono determinate come segue:
2.2. Nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, compresi i licei artistici e gli istituti d'arte, l'insegnamento della religione cattolica è organizzato attribuendo ad esso, nel quadro dell'orario settimanale, le ore di lezione previste dagli ordinamenti didattici attualmente in vigore, salvo successive intese.
La collocazione oraria di tali lezioni è effettuata dal capo di istituto sulla base delle proposte del collegi dei docenti, secondo il normale criterio di equilibrata distribuzione delle diverse discipline nella giornata e nella settimana, nell'ambito della scuola e per ciascuna classe.
2.3. Nelle scuole elementari, in aderenza a quanto stabilito in ordine ai valori religiosi nel decreto del Presidente della Repubblica 12 febbraio 1985, n. 104, sono organizzate specifiche autonome attività di insegnamento della religione cattolica secondo i programmi di cui al punto 1.
A tale insegnamento sono assegnate complessivamente due ore nell'arco della settimana.
2.4. Nelle scuole materne, in aderenza a quanto stabilito nel decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1969, n. 647, sono organizzate specifiche e autonome attività educative in ordine all'insegnamento della religione cattolica nelle forme definite secondo le modalità di cui al punto 1.
A tali attività sono assegnate complessivamente due ore nell'arco della settimana.
2.5. L'insegnamento della religione cattolica è impartito da insegnanti in possesso di idoneità riconosciuta dall'ordinario diocesano e da esso non revocata, nominati, d'intesa con l'ordinario diocesano, dalle competenti autorità scolastiche ai sensi della normativa statale.
Ai fini del raggiungimento dell'intesa per la nomina dei singoli docenti l'ordinario diocesano, ricevuta comunicazione dall'autorità scolastica delle esigenze anche orarie relative all'insegnamento di ciascun circolo o istituto, propone i nominativi delle persone ritenute idonee e in possesso dei titoli di qualificazione professionale di cui al successivo punto 4.
2.6. Nelle scuole materne ed elementari, in conformità a quanto disposto dal n. 5, lettera a), secondo comma, del protocollo addizionale, l'insegnamento della religione cattolica, nell'ambito di ogni circolo didattico, può essere affidato dall'autorità scolastica, sentito l'ordinario diocesano, agli insegnanti riconosciuti idonei e disposti a svolgerlo.
2.7. Gli insegnanti incaricati di
religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici
con gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti ma partecipano alle
valutazioni periodiche e finali solo per gi alunni che si sono avvalsi
dell'insegnamento della religione cattolica, fermo quanto previsto dalla
normativa statale in ordine al profitto e alla valutazione per tale
insegnamento.
3. Criteri per la scelta dei libri di testo
3.1. Premesso che i libri per l'insegnamento della religione cattolica, anche per quanto concerne la scuola elementare, sono testi scolastici e come tali soggetti, a tutti gli effetti, alla stesa disciplina prevista per gli altri libri di testo, i criteri per la loro adozione sono determinati come segue:
3.2. I libri di testo per l'insegnamento della religione cattolica, per essere adottati nelle scuole, devono essere provvisti del nulla osta della Conferenza episcopale italiana e dell'approvazione dell'ordinario competente, che devono essere menzionati nel testo stesso.
3.3. L'adozione dei libri di testo
per l'insegnamento della religione cattolica è deliberata dall'organo scolastico
competente, su proposta dell'insegnante di religione, con le stesse modalità
previste per la scelta dei libri di testo delle altre discipline.
4. Profili della qualificazione professionale degli insegnanti di religione
4.1. Premesso che:
a) L'insegnamento della religione cattolica, impartito nel quadro delle finalità della scuola, deve avere dignità formativa e culturale pari a quella delle altre discipline;
b) detto insegnamento deve essere impartito in conformità alla dottrina della Chiesa da insegnanti riconosciuti idonei dall'autorità ecclesiastica, e in possesso di qualificazione professionale adeguata,
i profili della qualificazione professionale sono determinati come segue:
4.2. Per l'insegnamento della religione cattolica si richiede il possesso di uno dei titoli di qualificazione professionale di seguito indicati:
4.3. Nelle scuole secondarie di primo e secondo grado l'insegnamento della religione cattolica può essere affidato a chi abbia almeno uno dei seguenti titoli:
a) titolo accademico (baccalaureato, licenza o dottorato) in teologia o nelle altre discipline ecclesiastiche, conferito da una facoltà approvata dalla Santa sede;
b) attestato di compimento del regolare corso di studi teologici in un Seminario maggiore;
c) diploma accademico di magistero in scienze religiose, rilasciato da un istituto di scienze religiose approvato dalla Santa Sede;
d) diploma di laurea valido nell'ordinamento italiano, unitamente a un diploma rilasciato da un istituto di scienze religiose riconosciuto dalla Conferenza episcopale italiana.
4.4. Nella scuola materna ed elementare insegnamento della religione cattolica può essere impartito ai sensi del punto 2.6, dagli insegnanti del circolo didattico che abbiano frequentato nel corso degli studi secondari superiori l'insegnamento della religione cattolica, o comunque siano riconosciuti idonei dall'ordinario diocesano.
Nel caso in cui l'insegnamento della religione cattolica non venga impartito da un insegnante del circolo didattico, esso può essere affidato:
a) a sacerdoti e diaconi, oppure a religiosi in possesso di qualificazione riconosciuta dalla Conferenza episcopale italiana in attuazione del can. 804, par. 1, del codice di diritto canonico e attestata dall'ordinario diocesano;
b) a chi, fornito di titolo di studio valido per l'insegnamento nelle scuole materne ed elementari, sia in possesso dei requisiti di cui al primo comma del presente punto 4.4.; oppure a chi, fornito ai altro diploma di scuola secondaria superiore, abbia conseguito almeno un diploma rilasciato d un Istituto di scienze religiose riconosciuto dalla Conferenza episcopale italiana.
4.5. La Conferenza episcopale italiana comunica al Ministero della pubblica istruzione l'elenco delle facoltà e degli istituti che rilasciano i titoli di cui ai punti 4.3. e 4.4. nonché delle discipline ecclesiastiche di cui al punto 4.3., lettera a).
4.6. I titoli di qualificazione professionale indicati ai punto 4.3. e 4.3. sono richiesti a partire dall'anno scolastico 1990-91.
4.6.1. Fino a tale data l'insegnamento della religione cattolica può essere affidato a chi non è ancora in possesso dei titoli richiesti, purché abbia conseguito un diploma di scuola secondaria superiore e sia iscritto alle facoltà o agli istituti di cui al punto 4.5.
4.6.2. Sono in ogni caso da ritenere dotati della qualificazione necessaria per l'insegnamento della religione cattolica:
a) gli insegnanti della scuola materna e della scuola elementare un servizio nell'anno scolastico 1985-86;
b) gli insegnati di religione cattolica delle scuole secondarie e quelli incaricati di sostituire nell'insegnamento della religione cattolica l'insegnante di classe nelle scuole elementari, che con l'anno scolastico 1985-86 abbiano cinque anni di servizio.
4.7. Per l'aggiornamento professionale degli insegnanti di religione in servizio, la Conferenza episcopale italiana e il Ministero della pubblica istruzione attuano le necessarie forme di collaborazione nell'ambito delle rispettive competenze e disponibilità, fatta salva la competenza delle regioni e degli enti locali a realizzare per gli insegnanti da essi dipendenti analoghe forme di collaborazione rispettivamente con le conferenze episcopali regionali o con gli ordinari diocesani
* * *
Nell'addivenire alla presenta intesa le Parti convengono che, se si manifestasse l'esigenza di integrazioni o modificazioni, procederanno alla stipulazione di una nuova intesa.
Parimenti le Parti si impegnano alla reciproca collaborazione per l'attuazione, nei rispettivi ambiti, della presente intesa, nonché a ricercare un'amichevole soluzione qualora sorgessero difficoltà di interpretazione.
La Parti si daranno reciproca comunicazione, rispettivamente, dell'avvenuta emanazione e dell'avvenuta promulgazione dell'intesa nei propri ordinamenti.
Roma addì 14 dicembre 1985
Il Ministro della pubblica istruzione
Franca FALCUCCI
Il Presidente della Conferenza episcopale italiana
Card. Ugo POLETTI
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Decisione n. 1006 del 17 giugno 1988, Sez. VI
(Obbligo delle attività alternative per chi non sceglie l'insegnamento della religione cattolica)
Trascrizione della parte centrale della fondamentale Sentenza 17.6.1988 del Consiglio di Stato che rovesciando una sentenza del TAR del Lazio propone una serie di argomentazioni e decide che la frequenza alle attività alternative è obbligatoria, escludendo anche la possibilità dello studio individuale. Questa sentenza rappresenta il livello più avanzato delle posizioni ottenute dai cattolici all'interno delle istituzioni dello stato in tema di insegnamento della religione cattolica. L'anno seguente la Corte Costituzionale, con sentenza altrettanto fondamentale, annullerà completamente l'impianto di questa sentenza, sconfessandola alla radice.
DIRITTO
I due ricorsi, per l'identità delle questioni trattate, sono oggettivamente connessi e vanno, pertanto, riuniti per essere congiuntamente esaminati.
1) Quanto al ricorso n. 1572/87, l'Amministrazione appellante ripropone, preliminarmente, l'eccezione di inammissibilità del ricorso stesso, già dedotta in primo grado e disattesa dal T.A.R. secondo cui l'obbligo di frequenza delle attività integrative e la collocazione dell'insegnamento della religione cattolica nel quadro dell'orario ordinario delle lezioni discendeva, più che dalla circolare impugnata n. 302 del 29 ottobre 1986, già dalla legge, nonché dai programmi scolastici e da precedenti circolari non impugnate dall'appellata.
L'eccezione è infondata e legittimamente il T.A.R. l'ha respinta.
Come osservato dalla Tavola Valdese, le "attività integrative", alternative all'insegnamento della religione cattolica, hanno assunto carattere obbligatorio nei confronti di tutti gli alunni soltanto con la circolare impugnata n. 302 del 1986, la quale dispone, tassativamente, il che non era avvenuto nelle precedenti circolari, l'obbligatorietà della frequenza delle attività stesse per gli alunni che "comunque" non avessero dichiarato di avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica.
L'avverbio (comunque) impiegato, escludendo a priori qualsiasi eccezione, consente quindi l'imposizione coattiva delle attività alternative anche agli alunni che abbiano esercitato lo specifico diritto riconosciuto dall'art. 9 della L. 449 del 1984, "di non avvalersi delle pratiche e dell'insegnamento religioso", concretizzando la lesione dell'interesse fatto valere dalla Tavola Valdese; solo con tale circolare, pertanto, si è affermata l'obbligatorietà della frequenza delle attività integrative anche per gli alunni che non si avvalgono dell'insegnamento della religione cattolica, perché appartenenti alle Chiese rappresentate dalla Tavola medesima che, quindi, legittimamente solo dopo tale circolare ha proposto ricorso.
Sempre in via preliminare, nello stesso ricorso n. 1572/87, l'Amministrazione appellante ripropone, ulteriormente, l'eccezione di inammissibilità dell'originario ricorso per carenza di legittimazione attiva della Tavola Valdese.
Anche tale eccezione è infondata e legittimamente è stata respinta dal T.A.R.
La Tavola Valdese è ente morale dotato di capacità giuridica per antico possesso di stato ed ente esponenziale delle chiese valdesi; ed in tale qualità ha stipulato l'intesa con lo Stato italiano che è alla base della L. n. 449/1984.
Correttamente, pertanto, il T.A.R. ha osservato che, essendosi l'ente posto come rappresentante istituzionale delle chiese di culto valdese e cioè come soggetto esponenziale degli interessi di cui tali chiese sono portatrici, l'azione da essa proposta a tutela di quegli interessi, appare sorretta da una chiara posizione legittimante, donde, l'ammissibilità del ricorso in relazione all'eccezione esaminata, atteso che la Tavola Valdese non agisce quale mero sostituto processuale dei propri fedeli, bensì per un concreto interesse proprio (e delle chiese da essa rappresentate) qualificato non dalla ricerca del mero rispetto della norma pattizia, bensì dal peculiare intervento di salvaguardia delle sue stesse primarie finalità culturali.
Sempre in via preliminare, infine, nel ricorso 1572/84, viene riproposta l'eccezione, anch'essa da ritenere infondata, di improponibilità del ricorso stesso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Non si può condividere, infatti, l'assunto dell'appellante secondo cui la Tavola Valdese avrebbe fatto valere un interesse di mero fatto, ovvero in diritto soggettivo, dal momento che l'ente ha inteso censurare le modalità di esercizio del potere, riconosciuto all'Amministrazione della Pubblica Istruzione, di organizzare e gestire con atti autoritativi il servizio scolastico, lamentando, pertanto, la lezione di un vero e proprio interesse legittimo, la cui tutela è affidata alla cognizione del giudice amministrativo.
2) Passando, ora, all'esame del merito dei due ricorsi, va rilevato che l'insegnamento della religione cattolica nella scuola italiana risale alla legge sarda (Casati) del 13 novembre 1859, n. 3725 e ribadito nell'art. 3 del R.D. 1 ottobre 1923, n. 2185 (riforma Gentile) secondo cui "a fondamento e coronamento dell'istruzione elementare di ogni ordine e grado è posto l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica ".
Principio, quello indicato, successivamente confermato con l'art. 27 del R.D. 5 febbraio 1928, n. 577 che configurava, anch'esso, la dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica, come "fondamento e coronamento dell'istruzione elementare".
L'insegnamento, concretamente disciplinato dal regolamento di cui al R.D. 26 aprile 1928, n. 1297 (artt. 108-112 e allegato B) veniva configurato come obbligatorio, anche se era consentita "l'esenzione dei fanciulli i cui genitori dichiaravano di volervi provvedere personalmente" (4° comma detto art. 27 R.D. n. 577/1928).
Con il Concordato dell' 11 febbraio 1929, reso esecutivo con la legge 27 maggio 1929, n. 810, si provvedeva ad una maggiore estensione dell'insegnamento in discorso (art. 36) considerato, questa volta, "fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica (non solo elementare)".
Veniva, perciò, consentito che lo stesso avesse un ulteriore sviluppo nella scuola media, secondo programmi da stabilirsi di comune accordo tra la Santa Sede e lo Stato italiano.
Era, così, emanata la legge 5 giugno 1930, n. 824 che (art. 1) istituiva negli istituti medi d'istruzione classica, scientifica e magistrale, nelle scuole e negli istituti artistici l'insegnamento religioso.
Restava salva (art. 2) la dispensa dall'obbligo di frequentare l'insegnamento in esame "per gli alunni i cui genitori o chi ne fa le veci, ne facciano richiesta per iscritto al capo d'istituto all'inizio dell'anno scolastico".
Con successivo R.D. 10 luglio 1930, n. 1015 venivano, poi, elaborati i programmi della materia, che erano, quindi, riveduti con l'istituzione della scuola media unificata e che erano fissati con D.M. 24 aprile 1963.
Tutti i successivi provvedimenti volti ad introdurre riforme dei corsi di istruzione, ovvero ad istituire nuove scuole, compresero sempre, fra gli insegnamenti curricolari, l'insegnamento della religione cattolica; peraltro, con la facoltà della dispensa.
Da sottolineare che alle solenni dichiarazioni di principio, contenute nell'art. 36 del Concordato del 1929, cui si ricollega tutta l'evoluzione della successiva legislazione, non faceva riscontro un adeguato piano attuativo, dal momento che le leggi le quali, concretamente, attuavano i principi enunciati nel Concordato, riconoscevano un ruolo marginale all'insegnamento della religione nella scuola, dato che lo Stato consentiva soltanto la sua introduzione nelle scuole secondarie superiori, sempre, però, quasi considerandolo estraneo alla funzione pubblica in materia di istruzione; attribuendogli, cioè, un ruolo che venne segnato sin dalla legge 5 giugno 1930 n. 825, attuativa del Concordato stesso, che disponeva che per tale insegnamento non vi sarebbero stati, comunque, né voti, né esame, né frequenza assolutamente obbligatoria (art. 2).
L'ambiguità del sistema si spiegava con l'esigenza, da un lato, di armonizzazione dell'intero ordinamento, e, quindi, anche di quello scolastico, al principio del confessionismo statale, che con il Concordato veniva riaffermato; dall'altro lato con la contraddizione che la proclamata funzione attribuita all'insegnamento della religione confliggeva con la concezione idealistica dello stato etico allora imperante, e con il ruolo preminente nell'educazione che da tale concezione derivava e che rivendicava il diritto dello Stato di educare in piena autonomia dal magistero della Chiesa.
3) Completamente diversa è la motivazione dell'insegnamento, nelle scuole pubbliche, della religione cattolica, adottata dal Concordato revisionato.
Il che, se comporta un evidente superamento delle precedenti ambiguità e contraddizioni, implica, tuttavia, una diversa chiave interpretativa delle relative disposizioni e delle modalità concernenti la loro attuazione.
Al punto 2 dell'art. 9 del nuovo accordo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede, reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121, si afferma, innanzitutto, il riconoscimento da parte della Repubblica Italiana della cultura religiosa (di ogni specie di religione).
Lo Stato, cioè, pur nella sua laicità, non resta indifferente al fenomeno religioso (intesa l'espressione in senso lato ed a prescindere dalla soluzione che ai problemi posti della religione ognuno intenda dare); adegua, bensì, i suoi fini essenziali, relativi al miglioramento dell'uomo, considerandone la connaturale religiosità "nel quadro delle finalità della scuola".
D'altra parte (seconda enunciazione contenuta nell'indicata norma) tiene anche conto "che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano".
Che tali principi, cioè, hanno, tuttora, un rilevante radicamento nella coscienza (quanto meno della maggioranza) del popolo italiano, che trova, essenzialmente, nella cultura, nella tradizione e nella vita quotidiana i segni e i simboli di tale tipo di religione; con la conseguenza che non possono essere ignorati da una scuola, la cui funzione è anche quella di interpretare e portare a livello di conoscenza individuale i fenomeni più diffusi della realtà sociale.
Scaturisce la conseguenza che l'insegnamento della religione cattolica non è più considerato come estraneo alla scuola pubblica; non è più una mera concessine fatta alla Chiesa cattolica, rientrando, bensì, a titolo proprio, nelle finalità dello Stato in ordine alla elevazione della cultura e della coscienza del singolo cittadino.
La Repubblica Italiana, pertanto (terzo enunciato dell'anzidetto punto 2 dell'art. 9 della legge n. 121/1985), in tale diversa prospettiva "continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado ".
Come è dato dedurre dalle norme richiamate e come, poi, sarà ribadito nel relativo protocollo addizionale, il nuovo testo del Concordato non ha accolto il suggerimento di sostituire all'insegnamento della religione un insegnamento sulla religione: suggerimento teso a trasformare l'insegnamento stesso in un corso di cultura religiosa, o di storia delle religioni o di sociologia religiosa che, forse, avrebbe reso più agevole il successivo operato dell'Amministrazione della Pubblica Istruzione.
E' stato, cioè, indiscutibilmente ribadito il carattere confessionale dell'insegnamento della religione cattolica.
Ciò ha comportato la necessità di salvaguardare la libertà di coscienza dei singoli cittadini, di cui all'art. 19 della Costituzione stessa; e proclamata, del resto, anche nella dichiarazione conciliare Dignitatis humanae.
Conseguentemente, pertanto, al secondo comma dell'art. 9 del Concordato rinnovato, si è affermato l'ulteriore principio secondi cui "nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento ", aggiungendosi che "all'atto della iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell'autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione".
L'esplicita enunciazione, quindi, del principio secondo cui la scelta di avvalersi o non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica non deve dar luogo ad alcuna forma di discriminazione costituisce un altro dei principi fondamentali del Concordato revisionato.
L'avvalersi o il non avvalersi di detto insegnamento non deve portare ad alcuna forma di differenziazione di trattamento per gli alunni. Il servizio scolastico, cioè, non deve essere organizzato in modo da differenziare il non avvalente; ma non deve nemmeno risolversi in un aggravio per chi, invece, dell'insegnamento religioso intende avvalersi.
Ed è in tale prospettiva che deve interpretarsi il 2° comma lett. b dell'art. 5 del protocollo aggiuntivo al nuovo Concordato secondo cui: "con successiva intesa tra la competente autorità scolastica e la Conferenza episcopale italiana verranno determinate...: 2) le modalità di organizzazione di tale insegnamento, anche in relazione alla collocazione nel quadro orario delle lezioni".
Quindi, nessuna marginalizzazione dell'ora di religione ha voluto introdurre il nuovo Concordato, considerando, anzi, la materia alla stessa stregua degli altri insegnamenti e demandando ad un futuro accordo la sua collocazione nel quadro orario delle lezioni.
Accordo, peraltro, che è stato puntualmente redatto, successivamente, tra il Ministero della Pubblica Istruzione dell'epoca e la Conferenza episcopale e tradotto, dopo l'autorizzazione del Consiglio dei Ministri alla sottoscrizione, nel D.P.R. n. 751 del 16 dicembre 1985.
Accordo in cui, nelle premesse (2,1), è stato esplicitamente ribadito ed ulteriormente chiarito che il diritto se avvalersi o non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica assicurato dallo Stato non deve determinare alcuna forma di discriminazione, neppure in relazione ai criteri per la formazione delle classi, alla durata dell'orario scolastico giornaliero ed alla collocazione di detto insegnamento nel quadro orario delle lezioni.
Specificandosi, poi (2.2), che nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, compresi i licei artistici e gli istituti d'arte, l'insegnamento della religione cattolica è organizzato attribuendo ad esso, nel quadro dell'orario settimanale, le ore di lezione previste dagli ordinamenti didattici attualmente in vigore, salvo successive intese.
La collocazione oraria, inoltre, di tali lezioni è effettuata dal capo di istituto sulla base delle proposte del collegio dei docenti, secondo il normale criterio di equilibrata distribuzione delle diverse discipline nella giornata e nella settimana, nell'ambito della scuola e per ciascuna classe.
Nulla di diverso rispetto a quanto sin qui ricordato si rinviene, poi, nell'intesa tra lo Stato italiano e la Tavola Valdese, di cui alla legge n. 449 dell'11 agosto 1984, che ribadisce, anch'essa, il principio secondo i quale la Repubblica Italiana, nell'assicurare l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, materne, elementari, medie e secondarie superiori, riconosce agli alunni di dette scuole, al fine di garantire la libertà di coscienza di tutti, il diritto di non avvalersi delle pratiche e dell'insegnamento religioso, per loro dichiarazione, se maggiorenni o, altrimenti, per dichiarazione di uno dei loro genitori.
Ed aggiunge che, per dare reale efficacia alla attuazione di tale diritto, l'ordinamento scolastico provvede a che l'insegnamento religioso ed ogni eventuale pratica religiosa, nella classe in cui sono presenti alunni che hanno dichiarato di non avvalersene, non abbiano luogo in occasione dell'insegnamento di altre materie, né secondo orari che abbiano per detti alunni effetti comunque discriminanti.
Da richiamare, infine, ancora sull'argomento la legge 18 giugno 1986, n. 281, secondo cui (art. 3) le scelte in ordine ad insegnamenti opzionali e ad ogni altra attività culturale e formativa sono effettuate personalmente dallo studente.
Da sottolineare, infine, per quanto può valere sulla complessiva interpretazione del sistema, la mozione parlamentare della Camera dei Deputati del 16 gennaio 1986, la quale, tra l'altro, impegna il Governo a fissare natura, indirizzi, modalità di svolgimento e di valutazione delle attività culturali e formative offerte dalla scuola nei suoi diversi gradi a chi intende non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica, al fine di assicurare la scelta tra alternative entrambe note e definite disponendo, entro il 30 aprile, le misure di conseguenza necessarie, anche con eventuale provvedimento di legge.
4) Così ricostruito il complessivo sistema normativo, la sua interpretazione, letterale, logica, storica, e sistematica, ad opinione del Collegio, porta, in sintesi, a ritenere che l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole secondarie non universitarie sia oggi materia curricolare, che lo Stato è obbligato a praticare in quanto ritenuta attinente alle finalità della scuola ed in quanto inerente al patrimonio storico del popolo italiano.
Trattasi, peraltro, di insegnamento facoltativo, nel solo senso, però, che è data facoltà agli alunni di non avvalersene per loro libera scelta o, se minori, nella scuola secondaria inferiore e nella scuola elementare e materna, per scelta di uno dei genitori esercente la potestà genitoriale; purtuttavia esso contribuisce alla determinazione del complessivo quadro orario, dal che consegue che la scuola è tenuta ad offrire in alternativa ai non avvalenti altro insegnamento, ovvero attività culturali e formative equivalenti, che, una volta esercitata l'opzione, è obbligatorio frequentare.
La scelta tra l'avvalersi e il non avvalersi dell'insegnamento in discorso non deve portare ad alcuna forma di discriminazione o differenziazione tra gli alunni; il che implica, fra l'altro, un equilibrato inserimento della materia con le altre discipline della giornata e della settimana scolastica per ciascuna classe, senza alcuna forma di marginalizzazione.
L'obbligo della frequenza delle attività alternative non deve risolversi, in concreto, in un'ingiustificata forma di discriminazione, in relazione alle materie ed alle pratiche offerte ai non avvalenti; esso, peraltro, in sé, non è discriminatorio, dal momento che evita un disvalore assoluto quale sarebbe il diritto non già di non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica "ma di potersi disimpegnare a volontà da qualsiasi altra attività alternativa e sostitutiva".
5) In contrasto con quanto precedentemente riassunto, gli originari ricorrenti, attuali appellati e con essi il T.A.R., hanno ritenuto che non sarebbe consentito imporre, a chi intenda non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica, la scelta di altro insegnamento o di altra attività o pratica culturale alternativa.
L'insegnamento della religione cattolica avrebbe, infatti, perduto il carattere della obbligatorietà in virtù della legge n. 121/85 e della legge n. 449/84, per cui sarebbe manifestamente illogico ed intimamente contraddittorio prevedere come obbligatoria la frequenza a corsi di insegnamento alternativi rispetto al primo; sicché l'alternativa ad una facoltà verrebbe, in effetti, a convertirsi in un obbligo; e poiché questo investirebbe solo i non avvalenti, sarebbe manifesta la discriminazione da essi patita, in palese contraddizione con le disposizioni di cui alle leggi sopracitate.
Anche se apparentemente suggestiva, la tesi non è condivisibile, dal momento che la questione così come risulta prospettata, in termini, cioè, semplicemente di facoltatività o di obbligatorietà, implica un'impostazione riduttiva del problema dell'insegnamento della religione cattolica, soprattutto se considerato alla stregua dei due indicati criteri che, nelle premesse dell'art. 9 del Concordato rinnovato, sorreggono la motivazione dell'obbligo dello Stato a continuare a prestare l'insegnamento medesimo nelle scuole di ogni ordine e grado a carattere non universitario.
D'altra parte, a ben riflettere, appare evidente il salto logico insito nella tesi qui criticata, dato che, tanto la legge n. 449/1984, tanto la legge n. 121/85, prevedono soltanto il diritto di non avvalersi delle pratiche e dell'insegnamento religioso svolto normalmente nelle scuole non universitarie; diritto valevole, ovviamente, anche per chi è di fede cattolica.
Nulla è previsto, invece, in relazione alle opzioni alternative da offrire a chi dichiara di non volersi avvalere di detto insegnamento, né in merito alla obbligatorietà o meno di sottostare a tali alternative, che si evince invece considerando l'intero sistema, dovendo la scuola, per la quale peraltro l'insegnamento della religione cattolica è oggettivamente obbligatorio, adoprarsi per evitare ogni forma di discriminazione sia dei non avvalenti, sia per coloro che abbiano, invece, scelto di avvalersi dell'insegnamento stesso.
Del resto, anche alla stregua del precedente ordinamento, l'insegnamento della religione cattolica finiva per avere riconosciuto il carattere della facoltatività, sotto il profilo soggettivo, avendo la giurisprudenza ritenuto di considerare l'esonero come un vero e proprio diritto soggettivo.
Si trattava, però, di una facoltatività che implicava, quella sì, una macroscopica discriminazione, proprio perché imponeva all'esonerato un dovere di non frequenza e cioè un'espulsione, sia pure temporanea, dalla comunità scolastica.
Partendo dal presupposto, ormai generalmente riconosciuto, che la scuola dà cultura e che ogni forma di insegnamento in essa praticato contribuisce all'elevazione spirituale ed etica dell'allievo, era chiara la discriminazione per l'esonerato, costretto ad avvalersi del servizio per un tempo inferiore a quello riservato agli altri allievi e tenuto addirittura fuori dalla comunità scolastica.
Diversa, invece, è la situazione derivante dal Concordato revisionato, in base al quale il non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica non è considerato un disvalore, bensì costituisce l'esercizio di un diritto soggettivo ed implica l'ulteriore pretesa, costituente anch'essa un vero e proprio diritto, a non essere, perciò, discriminato con l'esclusione dalla comunità scolastica, ma a poter usufruire di un tempo scuola non inferiore rispetto a quello praticato dagli avvalenti.
Come ben messo in evidenza dall'Avvocatura dello Stato, l'insegnamento della religione cattolica non è oggi un quid pluris, un qualcosa, cioè, di aggiuntivo per gli alunni che di tale insegnamento intendano avvalersi bensì come osservato precedentemente, un valore culturale e didattico riconosciuto dalla scuola, che il giovane ha non solo il diritto ma anche il dovere di acquisire (ovviamente fatta salva la sua libertà di coscienza in materia) per la realizzazione delle finalità della scuola che devono essere, indefettibilmente, perseguite in conformità dell'orario curricolare.
Per non discriminare, pertanto, il non avvalente, appare necessario offrirgli un'alternativa che abbia il massimo possibile di equivalenza, sotto il profilo del valore didattico e formativo, dell'insegnamento della religione cattolica, in modo da attuare, anche per esso, il principio solennemente enunciato nel primo inciso del punto 2 dell'art. 9 del nuovo Concordato, secondo cui la Repubblica riconosce il "valore" della cultura religiosa.
D'altra parte, poi, se si volesse aderire alla tesi prospettata dagli appellati, cui è sottesa la inammissibile concezione della scuola non come luogo di cultura e di formazione, ma come luogo di sofferente costrizione, allora la discriminazione si realizzerebbe per coloro che dell'insegnamento della religione cattolica abbiano dichiarato di volersi avvalere, poiché da un maggior onere di orario per essi deriverebbe un maggior sacrificio di carattere personale.
Inoltre, se così fosse, si favorirebbe un mascherato disimpegno della frequenza dell'insegnamento della religione cattolica che ne uscirebbe marginalizzata; cosa certamente non voluta dal nuovo Concordato e che, oltretutto, vanificherebbe il riconoscimento da parte dello Stato del valore della cultura religiosa.
Occorre, poi, rilevare, come sottolineato da autorevole dottrina, che oggi il sistema appare, tra l'altro, aperto alla possibilità di un insegnamento sulla religione introdotto dallo Stato nella sua autonomia non avente carattere confessionale.
Insegnamento che potrebbe raccordare, efficacemente, i due parametri introdotti dall'art. 9 del nuovo Concordato: vale a dire quello della ritenuta essenzialità dell'approccio con la problematica religiosa per il perseguimento delle finalità proprie della scuola, che presuppone la non facoltatività dell'approccio stesso attraverso un insegnamento curricolare e quello della confessionalità dell'insegnamento della religione cattolica, che presuppone la non obbligatorietà della sua frequenza dal punto di vista soggettivo dello studente, ma al tempo stesso la sua ritenuta idoneità a soddisfare alla più generale esigenza didattica della scuola nei confronti del fenomeno religioso.
Va ritenuto, pertanto, che la distinzione tra materie obbligatorie, opzionali e facoltative, su cui si basa tutta la costruzione degli appellati, è una distinzione puramente nominalistica e che, comunque, non può riferirsi, nella sua astratta e rigorosa formulazione, all'insegnamento della religione cattolica.
E che, peraltro, la facoltatività dell'insegnamento della religione cattolica, alla stregua della esaminata normativa, non possa essere intesa nel senso voluto dagli appellati, è anche dimostrato dal dibattito parlamentare che ha preceduto e seguito l'iter del nuovo Concordato e che, sul punto, è stato, essenzialmente, teso ad individuare le materie alternative da offrire in opzione ai non avvalenti.
E del resto, del problema sembra avere preso piena coscienza lo stesso legislatore che, nella menzionata legge n. 281/1986, quasi mostrando di recepire le critiche derivanti dalla asserita contraddittorietà tra facoltatività della materia ed obbligo di seguire le materie stesse ovvero le pratiche alternative, pare propenso a riqualificare l'insegnamento della religione cattolica come opzionale e non facoltativo.
6) Quanto rilevato precedentemente circa la collocazione nel quadro orario delle lezioni dell'insegnamento della religione cattolica e circa l'obbligatorietà delle materie, ovvero delle attività culturali e formative ad esso alternative, comporta, sul punto, l'accoglimento dell'appello principale dell'amministrazione.
Comporta, altresì, la reiezione dell'appello incidentale proposto dal Fiori, il cui primo motivo è specificato come asserita violazione dell'art. 5 del protocollo aggiuntivo della legge 25 marzo 1985, n. 121, nonché dell'art. 9 della legge 11 agosto 1984, n. 449 con riferimento agli artt. 2, 3, 19, 21e 33 della Costituzione, nonché eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà e sviamento, dal momento che all'indicata conclusione si è pervenuti proprio sulla base dell'interpretazione delle norme sostanziali richiamate dall'appellante incidentale, le quali non paiono contrastare con alcuna delle indicate norme costituzionali, in quanto salvaguardano comunque la libertà di coscienza.
Infondato è, poi anche il secondo motivo dell'appello incidentale proposto dallo stesso Fiori di asserita violazione e falsa applicazione dell'art. 9 legge 11 agosto 1984, n. 449, eccesso di potere, particolarmente sotto il profilo dello sviamento, atteso che la previsione di cui all'art. 9 della richiamata L. 449/84, la quale esclude che l'insegnamento della religione cattolica possa realizzare, per gli alunni che dichiarino di non avvalersene "secondo orari che abbiano effetti comunque discriminanti", soprattutto se interpretata sistematicamente con la legge n. 121/85, implicherebbe necessariamente il carattere facoltativo pieno dell'insegnamento medesimo e la sua collocazione in orario che permetta agli alunni che dichiarino di non avvalersene di non partecipare alle attività scolastiche durante le ore dedicate all'insegnamento della religione cattolica o comunque di scegliere liberamente se partecipare o meno alle attività alternative.
Come dimostrato precedentemente, l'art. 9 della legge n. 449 del 1984 non può essere interpretato nel senso voluto dall'appellante incidentale, secondo cui tenderebbe a garantire il diritto degli alunni che ne chiedano l'applicazione, di non essere costretti né a seguire l'ora di religione, né a seguire le attività alternative previste negli orari in cui viene svolto l'insegnamento della religione cattolica.
Se così fosse, la norma si porrebbe in contrasto, e ne risulterebbe pertanto modificato il contenuto, con la legge n. 121/1985 di ricezione del nuovo Concordato, di cui si sono ampiamente illustrati lo spirito e la finalità e soprattutto con la sua previsione relativa alla collocazione dell'insegnamento religioso cattolico nel quadro orano delle lezioni; si porrebbe in contrasto, inoltre, con la lett. b) dell'art. 5 del protocollo aggiuntivo al nuovo Concordato, secondo cui non poteva immaginarsi ancora alcuna predeterminazione circa la collocazione oraria dell'insegnamento della religione cattolica, venendo anzi demandato ad una successiva intesa tra la competente autorità scolastica e la Conferenza episcopale italiana, tra l'altro, "le modalità di organizzazione di tale insegnamento anche in relazione alla collocazione nel quadro degli orari delle lezioni".
D'altra parte, poi, che all'obbligatorietà della frequenza delle materie o attività didattiche alternative non possa riconoscersi alcun carattere discriminatorio, essendo anzi vero il contrario, lo si è dimostrato precedentemente, per cui nemmeno per il secondo motivo prospettato la dedotta censura può essere accolta.
In parte fondato è, quindi il terzo motivo dell'appello incidentale ritenendo il collegio di convenire con l'appellante circa la veridicità di alcune delle enunciazioni ivi prospettate.
Si assume, al riguardo, che vi sarebbe violazione dell'art. 9 dell'accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede e del punto 5 del protocollo aggiuntivo resi esecutivi con legge 23 maggio 1985 n. 121, con riferimento all'art. 7 legge 4 agosto 1977, n. 517 ed agli artt. 2, 3, 13, 21, 23, 97 della Costituzione italiana con riferimento alla risoluzione approvata dalla Camera dei Deputati nella seduta del giorno 15 gennaio 1986; ed agli artt. 3, 6 e 14 della legge 29 marzo 1983; eccesso di potere per sviamento, illogicità e contraddittorietà.
Vero è, come è implicito nella censura dell'appellante, che se vi fosse stato un atto legislativo che avesse determinato le materie o le attività alternative da offrire in opzione ai non avvalenti l'insegnamento della religione cattolica, tutto sarebbe stato più agevole per l'amministrazione della pubblica istruzione e, verosimilmente, non vi sarebbero state le condizioni per una contestazione così netta e radicale delle scelte dalla stessa in concreto praticate.
Purtuttavia, così non è stato: l'amministrazione scolastica, infatti, si è trovata nella necessità di dare attuazione ad una normativa carente su di un punto fondamentale ed ha cercato di supplirvi provvisoriamente utilizzando i mezzi a sua disposizione; ricorrendo, cioè, alle materie ed attività previste dall'ordinamento scolastico, sforzandosi di adattarle alle finalità del nuovo Concordato, relativamente agli scopi dell'insegnamento della religione cattolica, come in precedenza precisati.
Ha fatto, così, ricorso alla legge 4 agosto 1977, n. 517 e più particolarmente, per le scuole medie inferiori alle attività integrative previste dall'art. 7 al fine di agevolare il diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni.
Offrendo, in tal modo, con una valutazione tecnico-discrezionale, di cui la censurabilità è limitata al profilo della legittimità, una possibilità di scelta, da realizzarsi anche attraverso i suggerimenti degli interessati, con l'indicazione che tali attività avrebbero dovuto essere particolarmente dirette all'approfondimento di quelle parti dei programmi più strettamente attinenti ai valori della vita e convivenza civile (fine proprio dell'insegnamento religioso).
Ha anche previsto il cosiddetto studio individuale, cui ha dichiarato tenuti gli studenti che, avendo comunque scelto di non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica, non avessero inteso ugualmente di fruire delle attività alternative programmate dal Collegio dei docenti, offrendo in tal modo un'ulteriore opzione che consentiva ampiamente l'esplicazione della libertà di coscienza in materia di religione secondo le inclinazioni individuali di ciascun interessato, invitando, tra l'altro, al fine di un'ottimale realizzazione delle finalità perseguite, ad una regolamentazione anche di tale tipo di impegno, con la previsione di "appositi spazi così da corrispondere nel modo migliore al dovere di vigilanza per tutto il tempo scuola".
Ciò posto, se è vero che le attività integrative previste dalla legge 4 agosto 1977 n. 517, non hanno la specifica finalità di costituire una definitiva alternativa allo studio della religione cattolica, purtuttavia, va considerato che esse, per la vasta gamma di programmazione educativa che consentono, ben potevano, temporaneamente ed in attesa di una definitiva scelta legislativa, essere adattate ad un'alternativa valida sotto il profilo culturale (scelta, ad es., di un approfondimento storico relativo allo svilupparsi ed all'evolversi del fenomeno religioso) all'insegnamento della religione cattolica.
Né è esatto quanto affermato dall'appellante incidentale, secondo cui l'illegittimità relativa al ricorso alle materie alternative deriverebbe anche dal fatto che risulterebbero violati i diritti degli insegnanti, non tenuti ad occuparsi di tali attività, dal momento che tra i loro compiti vi è anche quello di "partecipare alla realizzazione delle iniziative educative della scuola" (art. 2 D.P.R. n. 417/74) e che "i docenti ... sono tenuti ... al completamento dell'orario mediante l'utilizzazione... nei corsi di integrazione ed extracurriculari" (art. 88 D.P.R. n. 417/74) Lo studio individuale, invece, se pur in astratto poteva anch'esso, temporaneamente, servire allo scopo di chi intendesse effettuare un approfondimento individuale della materia, attraverso, ad es., una ricerca, o comunque, se non interessato affatto al fenomeno religioso, avesse voluto impiegare diversamente, magari con una lettura, il tempo scuola ad esso dedicato, non sembra al collegio fosse, in concreto, adeguatamente organizzato, in maniera da evitare una sorta di abbandono a se medesimi di coloro che l'avessero scelto, con un disinteresse da parte della scuola implicante marginalizzazione e, quindi, discriminazione rispetto agli altri studenti.
Per tale secondo profilo, pertanto, l'appello incidentale va accolto e la circolare impugnata va, sul punto, annullata.
Infondato è il quarto motivo dell'appello incidentale del Fiori secondo cui vi sarebbe stata violazione degli artt. 2 e 3 del D.P.R. 31 maggio 1974, n. 417, nonché degli artt. 4 e 6 del D.P.R. 31 maggio 1974, n. 416; ed ancora dei principi generali ed eccesso di potere per illogicità e disparità di trattamento, sul rilievo che la circolare n. 302/86 ha stabilito che "qualora i contenuti delle attività (alternative) siano tali da renderlo utile ed opportuno, si potrà procedere all'accorpamento degli alunni oltre che per classi parallele, anche in senso verticale".
Con tale suggerimento, secondo l'appellante, ancora una volta il Ministero della Pubblica Istruzione interferirebbe arbitrariamente in materia, come quella della formazione delle classi, che è di competenza (artt. 4 e 6 D.P.R. n. 416/74 e art. 3 D.P.R. 417/74) anzitutto degli organi collegiali e poi "sulla base dei criteri generali stabiliti dal Consiglio di circolo o di istituto e delle proposte del collegio dei docenti del personale direttivo".
Sempre secondo il Fiori, il suindicato suggerimento sarebbe, poi, soprattutto illegittimo perché in contrasto con il principio del rapporto docente classe, così come configurato dagli artt. 2 e 3 D.P.R. n. 417/74, e più in generale dall'attuale organizzazione dell'attività didattica; è vero che la L. n. 517/77 consente la formazione di gruppi di alunni di classi diverse, ma ciò sarebbe consentito solo in relazione ad una programmazione didattica, che muova delle reali esigenze delle classi e non dall'esigenza esclusivamente organizzativa conseguente alla responsabilità del personale docente.
Valgono al riguardo le osservazioni dell'Avvocatura in merito alla generale potestà organizzatoria della attività scolastica riconosciuta al Ministro della Pubblica Istruzione, con l'ulteriore rilievo che l'impugnata circolare non esclude l'osservanza del rispetto del rapporto docente classe come per legge stabilito, né esautora gli organi collegiali, atteso che le determinazioni adottate nella circolare hanno la forma del suggerimento e non dell'imposizione agli organi stessi.
Destituito di fondamento, infine, è il quinto ed ultimo motivo dell'appello incidentale del Fiori con il quale viene nuovamente dedotta l'asserita violazione degli artt. 2, 3, 19, 21, 33 e 97 della Costituzione, in base al rilievo che la collocazione dell'insegnamento della religione cattolica nell'orario obbligatorio, con conseguente necessità dei non avvalenti di seguire le attività alternative, avrebbe mantenuto ed anzi accentuato la discriminazione tra gli alunni con grave conseguenza in ordine al regolare svolgimento dell'azione educativa e didattica.
In tale prospettiva, secondo l'appellante, l'art. 9, 2° comma, della legge n. 121/1985 e l'art. 5 del relativo protocollo addizionale si dovrebbero ritenere contrastanti con i principi costituzionali che sanciscono la tutela dei diritti fondamentali (art. 2), l'uguaglianza di tutti i cittadini senza possibilità di discriminazione per motivi religiosi (art. 3), la libertà religiosa (art. 19), la libertà di coscienza (art. 21), la libertà di insegnamento (art. 33).
La normativa, in ogni caso, se interpretata nel senso sopraindicato, violerebbe comunque l'art. 97 della Costituzione dal momento che, se l'insegnamento della religione cattolica deve essere inserito nel quadro dell'orario obbligatorio per tutti, non solo in nessun modo si potrebbe garantire un uguale trattamento a tutti gli alunni, ma soprattutto non si potrebbe garantire un'efficiente organizzazione dell'attività didattica.
Nelle considerazioni che si sono precedentemente svolte, circa le ragioni per le quali, secondo il Concordato revisionato, lo Stato ha assunto l'obbligo di continuare a praticare l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole non universitarie e la previsione relativa alla garanzia della tutela della libertà di coscienza, con la previsione della facoltà di non avvalersi di tale insegnamento, vi è la risposta a tutti i dubbi di costituzionalità avanzati dall'appellante.
La laicità dello Stato e la posizione di pari uguaglianza di tutti i cittadini non esclude, necessariamente, un'attenzione al fenomeno religioso della maggioranza del popolo sotto il profilo educativo.
La scelta, come materia di insegnamento, della religione cattolica è giustificata dal rilievo che "i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano".
Essa non contrasta con la Costituzione che, per gli stessi motivi, ha pure dedicato una specifica regolamentazione (art. 7) per tale credo religioso.
E soprattutto l'asserzione, ribadita nel Concordato revisionato, di garantire a chiunque la libertà di coscienza, con la previsione del diritto di non avvalersi di tale insegnamento, rende evidente come, in definitiva, non si sia attentato ad alcuno dei diritti fondamentali dell'individuo, né ad alcuno dei diritti di libertà specificamente richiamati dall'appellante.
Né sembra comprensibile l'asserita violazione dell'art. 97 della Costituzione circa il buon andamento della pubblica amministrazione, atteso che non è condivisibile la tesi secondo cui l'insegnamento della religione cattolica tra le materie curriculari impedirebbe una "efficiente organizzazione dell'attività didattica".
L'appello incidentale del Fiori è pertanto infondato in parte, nei limiti indicati nella motivazione.
7) Non resta che esaminare, ad opinione del collegio, l'originario motivo del ricorso del Fiori indicato sub 8 del ricorso al T.A,R. e concernente, specificamente, la formazione dell'orario delle lezioni da parte del Preside della scuola media "Tacito" di Roma-Vitinia; motivo di ricorso, peraltro, non riproposto dall'appellante incidentale, ma che va esaminato ugualmente, dal momento che non è stato esaminato dal T.A.R. perché ritenuto assorbito.
Si assume, in particolare, che vi è stata nella formazione dell'orario delle lezioni violazione ed erronea applicazione degli artt. 4 e 6 del D.P.R. 31 maggio 1974, n. 416 e dell'art. 3 del D.P.R. 31 maggio 1974, n. 417, nonché del punto 2.2 del D.P.R. 16 dicembre 1985, n. 751 ed eccesso di potere per contraddittorietà nonché illogicità, difetto di istruttoria e sviamento con riferimento alle CC.MM. n. 368, del 20 dicembre 1985; n. 131 del 3 maggio 1985; n. 211, del 24 luglio 1986 e n. 302 del 29 ottobre 1986.
E ciò nell'asserito presupposto che il Preside della scuola media "Tacito" di Roma-Vitinia ha adottato l'impugnato orario delle lezioni in violazione delle citate disposizioni di legge; difatti, né il Consiglio di istituto aveva formulato i necessari criteri né il Collegio dei docenti aveva formulato le necessarie proposte. Di conseguenza l'impugnato orario con la relativa collocazione dell'insegnamento della religione cattolica nell'orario obbligatorio per tutti gli alunni era stato adottato senza tener conto delle esigenze che avrebbero potuto rappresentare i detti organi collegiali.
La doglianza è fondata e va accolta.
L'art. 4 D.P.R. n. 416/74 al 2° comma lett. b) stabilisce che il Collegio dei docenti, tra l'altro, "formula proposte al Direttore didattico o al Preside ... per la formulazione dell'orario delle lezioni e per lo svolgimento delle altre attività scolastiche tenuto anche conto dei criteri generali indicati dal Consiglio di circolo o d'istituto".
E l'art. 6 del medesimo D.P.R. n. 416/1974 stabilisce anche che "il Consiglio di istituto indica, altresì, i criteri generali relativi alla formazione delle classi, all'adattamento dell'orario delle lezioni e delle altre attività scolastiche alle condizioni ambientali".
Infine, l'art 2 del D.P.R. n. 417/74 ribadisce che il personale direttivo procede alla formazione dell'orario, sulla base dei criteri generali stabiliti dal Consiglio di istituto e delle proposte del collegio dei docenti.
Tanto basta per concludere che il Preside avrebbe dovuto adottare l'orario delle lezioni dopo che il Consiglio di istituto avesse deliberato i criteri generali (e non risulta che nella specie ciò sia stato fatto) e dopo che il Collegio dei docenti avesse presentato le relative proposte (anch'esse mancanti, nonostante le numerose riunioni del collegio stesso e le elaborate discussioni in merito alla materia alternativa da suggerire).
Per concludere, pertanto, il motivo di ricorso, che assorbe le restanti censure non esaminate dal T.A.R., va accolto e la sentenza impugnata n. 1273/87 va confermata soltanto relativamente alla dichiarazione di annullamento dell'orario scolastico per la indicata illegittimità ed alla, implicita, previsione dell'illegittimità dello studio cosiddetto individuale.
Per il resto va accolto l'appello principale dell'amministrazione.
Data la complessità delle questioni trattate vi
sono le condizioni per dichiarare compensate le spese processuali relative ad
entrambi i gradi di giudizio.
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Sentenza Consiglio di Stato 17.6.1988: commento
schema fornito agli studenti dal docente Dentoni, come guida per la lettura del documento
Breve cronistoria di inquadramento (ricostruzione interpretata, ma documentabile)
La sentenza del consiglio di stato (schema della sentenza)
Argomento generale: annullamento di una decisione del TAR del Lazio (maggio 1988), che aveva a sua volta annullato la circolare del Ministero della Pubblica Istuzione (circolare che poneva come obbligatorie le "attività alternative" per chi non si avvaleva dell'IRC).
Schema per punti delle parti riportate:
1. La Avvocatura dello Stato sostiene anzitutto che non doveva neanche essere preso in considerazione il ricorso accettato dal TAR: il Consiglio di Stato dice che sì, il ricorso poteva essere discusso
2. La Avvocatura dello Stato sostiene che accanto ai singoli cittadini che hanno fatto ricorso, non ha titolo di porsi anche la chiesa valdese: il Consiglio di stato dice che sì, la chiesa valdese ha titolo per stare in giudizio
3. (...)
4. Per decidere della questione, il Consiglio di Stato ripercorre la storia dell'insegnamento della religione cattolica nella scuola italiana fino al 1984, toccando le seguenti fasi:
a) legge Casati (1859)
b) Regio decreto 1.10.1923 n. 2185 e Regio decreto 5.2.1928 n 577 (in questi due documenti, "l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica è posta a fondamento e coronamento dell'istruzione elementare") [notare la grave reticenza, al limite del falso, in questa ricostruzione storica: si tiene nascosto che dal 1888 al 1923 l'insegnamento obbligatorio della religone cattolica è stato abolito, per essere reintrodotto dal regime fascista]
c) regolamento applicativo (Regio decreto 26.4.1928 n. 1297) che conferma obbligatorio l'insegnamento della dottrina cattolica, ma con permesso di esenzione per i fanciulli i cui genitori dichiarano di volervi provvedere personalmente
d) concordato 11.2.1929, esecutivo con Legge 27.5.1929 n. 810: l'insegnamento della religione cattolica viene indicato "fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica (non solo elementare)".
e) applicazioni conseguenti (obbligatorietà, programmi, ecc.), fino al 1963; restava la possibilità di dispensa "per gli alunni i cui genitori ne facciano richiesta scritta al capo di istituto all'inizio dell'anno"
5. A questo punto il Consiglio di Stato lamenta che mentre a parole l'insegnamento della religione cattolica doveva essere fondamento e coronamento, in pratica è stato trattato come materia marginale, senza voti, senza esame, e senza frequenza assolutamente obbligatoria (L. 5.6.1930 n. 825, art. 2): infatti il principio del cattolicesimo come religione di stato è stato indebitamente limitato dalla concezione fascista dello stato etico (cioè di uno stato educatore autonomo di principi propri) [a rigore, il principio del cattolicesimo come religione di stato è rimasto in vigore fino al 1984: ed il Consiglio di Stato implicitamente si sta lamentando che fino al 1984 lo stato italiano non è stato confessionale come avrebbe dovuto essere!].
6. Passando al nuovo concordato del 1984, il Consiglio di Stato individua una filosofia completamente nuova che sta alla base dell'insegnamento della religione cattolica:
a) lo stato riconosce l'importanza della cultura religiosa; e cioè, pur essendo laico, si mette a servizio della "connaturata religiosità dell'uomo". Da notare che questa affermazione, che ha mandato in visibilio i cattolici, non c'è nel concordato, ma se la è inventata il Consiglio di Stato. Una posizione di questo tipo ignora coloro che non si riconoscono in nessuna religione, relegandoli a cittadini di serie B
b) lo stato prende atto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano
c) pertanto l'insegnamento della religione non è più accessorio, ma diviene un dovere dello stato, se vuole offrire ai cittadini una formazione completa
d) forse sarebbe stato meglio, dice il Consiglio di Stato, che lo stato assolvesse questo obbligo formativo istituendo non tanto un insegnamento della religione, ma un insegnamento sulla religione (cioè un corso di storia della religione o di sociologia religiosa): ci sarebbero stati molti meno problemi
e) invece la stato ha optato per un insegnamento cattolico confessionale (nota)
f) se lo stato avesse fatto della religione cattolica un insegnamento non confessionale, avrebbe potuto renderlo obbligatorio per tutti; ma essendo confessionale, ha dovuto prevedere l'esercizio di scelta da parte dello studente (o genitore)
7. Entra poi in gioco una condizione che il Consiglio di Stato utilizzerà in un senso molto particolare: la scelta se avvalersi o no, dice il concordato del 1984, non deve dare luogo ad alcuna forma di discriminazione, nel senso che
a) gli alunni non devono essere trattati differentemente, e cioè la scuola deve essere organizzata in modo uguale per chi si avvale e non si avvale, altrimenti è aggravato chi si avvale
b) l'organizzazione concreta delle lezioni di religione cattolica, rimandata a successiva Intesa (dicembre 1985) fu poi definita nel senso che nessuna discriminazione doveva risultare anche in relazione alla collocazione nel quadro orario delle lezioni
c) per il consiglio di Stato, l'intesa con la chiesa valdese (anche là dove dice che "per dare efficacia reale al diritto di scelta, insegnamenti confessionali non avranno luogo nè in concomitanza con l'insegnamento di altre materie, né secondo orari che abbiano per i non avvalentisi effetti comunque discriminanti") non dice nulla in contrario a quanto sopra
d) (...)
e) il fatto poi che nei dibattiti parlamentari si siano avanzati suggerimenti per i contenuti delle attività alternative, è per il Consiglio di Stato conferma del fatto che le attività alternative sono cosa buona, e il parlamento le vuole [come obbligatorie]
8. Pertanto l'IRC, secondo il consiglio di stato, è insegnamento obbligatorio; ma vi è la facoltà di non avvalersene; ma per chi non lo segue, lo stato è tenuto ad offrire in alternativa un altro insegnamento obbligatorio. E tutto questo non conterrebbe discriminazione: evita un "disvalore"
9. Il Consiglio di Stato passa poi ad analizzare gli argomenti del TAR del Lazio, per smontarli ad uno ad uno:
a) Aveva detto il TAR: se l'IRC è soggetto a scelta, che scelta è, se dopo avere scelto "no" mi trovo obbligato alle attività alternative? Il Consiglio di Stato ammette che l'argomento "è suggestivo", ma riduttivo (in che senso esatto, non lo leggo bene)
b) è vero, come aveva notato il TAR, che il nuovo Concorato parla di diritto di scelta se avvalersi o no dell'IRC senza parlare di attività alternative; ma questo non significa nulla: infatti non essendosene parlato, esse non possono essere eslcuse.
10. Anzi, ora che è chiaro che l'IRC è un insegnamento obbligatorio, è evidente che per evitare discriminazioni nei confronti dei non avvalentisi, bisogna offrire loro qualcosa di equivalente.
11. Il vecchio sistema dell'esonero, quello sì era discriminante[!]. Ma siccome l'IRC è considerato nel nuovo concordato un valore, allora occorre che agli studenti non avvalentisi sia offerto qualcosa che non sia disvalore
12. L'IRC non è un qualcosa di aggiuntivo, ma è un valore culturale che gli studenti hanno diritto e dovere di acquisire; perciò al non avvalentesi occorre offrire qualcosa che sia il più possibile equivalente
13. Chi vuole andare fuori dalla scuola durante l'IRC considera la scuola luogo di costrizione anziché luogo di cultura; e allora sarebbero discriminati coloro che hanno scelto l'IRC, costretti ad un maggiore sacrificio: e verrebe marginalizzata l'importanza della cultura religiosa affermata dal concordato.
14. A questo punto il Consiglio di Stato spara la sua cartuccia, dando delle indicazioni per uscire dal pasticcio: tenere obbligatorio l'insegnamento dell'IRC, ma prospettando un insegnamento non confessionale sulla religione, accanto a quello, riservato ai cattolici, che sarebbe un insegnamento confessionale della religione cattolica
15. Il Consiglio di Stato rifiuta quindi di considerare l'IRC "facoltativo." Si respinge quindi il ricorso sotto un primo punto di vista
16. Interessante anche come il Consiglio di stato respinge il ricorso sotto un secondo punto di vista: i ricorrenti avevano detto che l'intesa fra stato e chiesa valdese del 1984 prevede esplicitamente che "durante l'insegnamento confessionale non può esservi insegnamento di altre materie" (e quindi nemmeno delle attività alternative): quella legge non può leggersi in quel modo, dice il Consiglio di stato, perché andrebbe contro l'intesa Stato-Conferenza Episcopale Italiana. Ma leggendo bene il testo della sentenza e il testo della legge, si vede che il Consiglio di Stato non cita la legge correttamente: fa riferimento solo alla collocazione oraria non discriminante, ma non al fatto del "in concomitanza con altre materie". Io ho riguardato più volte i due passi nei quali il Consiglio di Stato ha citato la legge: ne ha (secondo me intenzionalmente) falsato il senso: in un primo caso citandola per intero, e limitandosi a dire che "nulla è diverso", la seconda volta citandola a metà per tirarne quella metà (con l'altra metà era impossibile) alla propria lettura
17. Il Consiglio di Stato ammette poi che se il parlamento avesse deciso per legge l'obbligatorietà delle attività alternative all'IRC, non vi sarebbero stati problemi; ma in mancanza di legge, ritiene che il Ministero abbia fatto bene a supplirvi, per adeguarsi allo "spirito" del nuovo concordato. Ed ha proposto come attività alternative (utilizzando una possibilità prevista dalla legge, di approfondimento integrativo che può essere deciso dagli organi collegiali) l'approfondimento "di quelle parti dei programmi che più hanno attinenza con i valori della vita e della convivenza civile (fine proprio dell'insegnamento religioso"
18. (...)
19. Il Consiglio di Stato (conseguentemente con la propria impostazione), ritiene che il Ministero, quando aveva previsto lo studio individuale come alternativo all'IRC, non ha agito legittimamente; e quindi annulla la circolare ministeriale là ove prevede la possibilità di studio individuale (=attività alternative per tutti!)
20. Nemmeno si può dire che c'è disparità di trattamento fra avvalentisi (che non possono essere accorpati) e non avvalentisi (che per le attività alternative possono essere accorpati a formare una classe). Infatti la Amministrazione scolastica può organizzarsi come le pare.
21. L'intero impianto della sentenza viene ribadito, con riferimento ai principi costituzionali ai quali si fa riferimento.
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Sentenza n.
203 del 11-12 aprile 1989
Trascrizione integrale dalla Gazzetta Ufficiale (19.4.1989, 1 serie speciale n. 16) della sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha in sostanza capovolto la sentenza 1988 del Consiglio di Stato, dichiarando che gli studenti non avvalentisi dell’IRC non possono essere sottoposti a nessun obbligo, e quindi nemmeno alle attività alternative
Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale.
Istruzione pubblica - Insegnamento della religione cattolica - Facoltatività - Materia alternativa per i non avvalentisi di tale insegnamento - Possibile discriminazione in caso di obbligatorietà - Non obbligo - Non fondatezza ai sensi di cui in motivazione.
[Legge 15 marzo 1985, n. 121, art. 9, punto (recte: numero) 2; art. (recte: punto) 5, lett. b), n.2 del Protocollo addizionale].
(Cost., artt. 2, 3 e 19).
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: dott. Francesco SAJA;
Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art., 9, punto (recte: numero) 2, della legge 25 marzo 1985,
n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato
a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense
dell’11 febbraio 1329, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), e dell'art.
(recte: punto) 5, lettera b), numero 2, del Protocollo addizionale, promosso con
ordinanza emessa il 30 marzo 1987 dal Pretore di Firenze nel procedimento civile
vertente tra Moroni Anna Maria ed altri e l’Amministrazione della pubblica
istruzione, iscritta al n. 575 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 444, prima serie speciale, dell'anno
1988;
Visto l’atto di costituzione di Moroni Anna Maria ed altri, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell'udienza pubblica del 7 marzo 1989 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola;
Uditi gli avvocati Paolo Barile,
Andrea Proto Pisani e Corrado Mauceri per Moroni Anna Maria ed altri e
l'Avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei
ministri;
RITENUTO IN FATTO
1.- Con ordinanza del 30 marzo 1987, emessa nel corso del procedimento civile vertente tra Moroni Anna Maria ed altri contro il Ministero della pubblica istruzione, il Pretore di Firenze ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, dell'art. 9, punto (recte: numero) 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 e dell'art. (recte: punto) 5, lettera b), numero 2 del Protocollo addizionale.
Il Giudice a quo, in parziale accoglimento delle eccezioni di parte, rileva che l'art. 9, numero 2, della legge n. 121 del 1985 e il punto 5, lettera b), del Protocollo addizionale, qualora non potessero legittimare la previsione dell'insegnamento religioso come insegnamento meramente facoltativo, posto al di fuori dell'orario ordinano delle lezioni, dovrebbero essere considerati incostituzionali per violazione dell'art. 19 della Costituzione (che garantisce la libertà di fede religiosa intesa in senso lato e comprensiva di ogni convinzione a tale riguardo, compresa la libertà di non professare ed esercitare alcuna fede e quindi anche la libertà dall'onere della presenza nella scuola o dalla frequenza di insegnamenti alternativi imposto, nell'attuale assetto dell'orario delle lezioni, a chi non ha scelto l'insegnamento religioso); dell'art. 3 della Costituzione (per la discriminazione imposta a carico degli allievi non avvalentisi nei confronti di coloro che hanno prescelto tale insegnamento); ed infine dell'art. 2 della Costituzione (per il danno che l’attuale assetto dell'orario scolastico cagiona ai diritti inviolabili di libero sviluppo della personalità del minore nell'ambito della formazione sociale rappresentata dalla scuola).
2.- Nell'intervento e nella memoria presentata nell'imminenza dell'udienza, l’Avvocatura dello Stato ha sostenuto -in difesa del Presidente del Consiglio dei ministri - l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza della questione.
a) Sotto il primo profilo si denunzia in primo luogo la lettura antinomica (senza, quindi, una esatta individuazione del thema decidendum) che il giudice a quo dà della disposizione impugnata; in secondo luogo, la mancanza di giurisdizione del giudice remittente in ordine ai provvedimenti organizzativi del servizio scolastico, rispetto ai quali gli interessati vanterebbero solo un interesse legittimo. Infine, secondo l’Avvocatura, che si richiama all'ordinanza di questa Corte n. 914 del 1988, "l'apprezzamento di situazioni contingenti [...] venutesi a creare nella fase di prima applicazione della normativa, non può essere compiuto nel Giudizio di costituzionalità, ove le asserite disparità siano, come nella specie, ricollegabili all’incompletezza delle ordinanze ministeriali o addirittura alle concrete scelte tecniche di chi è tenuto a darvi esecuzione": la Corte costituzionale è, infatti, in questo caso, chiamata a pronunciarsi sull'organizzazione dell'insegnamento religioso e sulle opportunità date a chi ha esercitato il diritto di non avvalersene.
b) Argomentando, poi, per la infondatezza della questione, l’Avvocatura fa riferimento in primo luogo ad una dichiarazione del Presidente del Consiglio dei ministri alla Camera dei Deputati il 10 ottobre 1987, in cui si ribadiva, al di là dell'impegno dello Stato ad offrire attività culturali e formative a chi non intendesse avvalersi dell'insegnamento religioso, la facoltà dello studente, "pur nel pieno rispetto del vincolo dell'orario scolastico, di non avvalersi né dell'insegnamento religioso, né degli insegnamenti o delle attività alternative offertegli dalla scuola, ovviamente potendo fruire dei servizi che la scuola mette a sua disposizione". Evidenzia inoltre l’Avvocatura come sia allo studio lo schema di un disegno di legge rivolto a "formalizzare" l'esigenza - già presente nell'attuale organizzazione amministrativa - che nessuno abbia di più o di meno in funzione della scelta operata nell'esercizio dì una facoltà del tutto "coerente con i principi costituzionali ricordati dal giudice a quo". Tale diritto di scelta non è stato certo limitato dalla intesa di cui al punto 5 del Protocollo Addizionale, che, tra l’altro, ha determinato le modalità di organizzazione dell'insegnamento in parola anche in riferimento alla sua collocazione nel quadro degli orari delle lezioni e che ha avuto poi esecuzione col D.P.R. n. 751 del 1985 (che, per la sua natura di atto amministrativo, non sarebbe d'altra parte sindacabile in sede di giudizio di legittimità costituzionale). Né la scelta di avvalersi o meno è meno libera per ciò solo che la religione si insegni nell'orario scolastico ordinario, una volta ammesso che lo Stato coerentemente con i principi superiori dell'ordinamento, possa liberamente scegliere d'impartire nelle sue scuole l’insegnamento religioso.
A parere deIl'Avvocatura, poi, l’insegnamento della dottrina cattolica nella scuola statale deve essere valutato sia nel suo aspetto "concordatario" (come obbligo assunto verso la Santa Sede), sia nel suo aspetto extraconcordatario.
Sotto il primo profilo, l’obbligo concordatario di insegnare !a religione nelle scuole va costituzionalmente valutato con riguardo ai supremi principi dell'ordinamento cui la Corte costituzionale in materia concordataria fa costante riferimento, data la "copertura" dell'art. 7 della Costituzione. Poiché tra i principi supremi dell'ordinamento non rientra l'esigenza di trattare in modo identico tutte le confessioni religiose, la preferenza data - nel momento dell'insegnamento - alla religione cattolica (non implicante una pretesa di adesione diversa o superiore rispetto a quella richiesta per qualsiasi altra materia d'insegnamento) non comporta che venga calpestata la libertà dei dei non-cattolici o violata la loro autonomia di pensiero.
Anche sotto il secondo profilo - quello della possibilità di porre tra le materie di insegnamento la dottrina cattolica a prescindere dall'obbligo concordatario - è da ritenersi, secondo l’Avvocatura, infondato qualunque dubbio di costituzionalità. Infatti, con riguardo all'art. 3, non suona affatto ingiustificata una scelta che privilegi i cattolici, dal momento che tale fede viene professata dalla maggior parte degli italiani.
Infine - ricorda l'Avvocatura - la libertà di fede e quella di pensiero (di cui, rispettivamente, agli artt. 19 e 21 della Costituzione), non traducendosi in un diritto di veto in ordine ad ogni scelta non condivisa, vanno coordinate con le esigenze del sistema costituzionale: lo Stato non limita né conculca tali libertà, non pretendendo adesione ai principi del cattolicesimo e, addirittura, concedendo il diritto di scelta.
3.- Nelle memorie presentate dalla difesa delle parti si insiste per la fondatezza della questione sollevata.
Secondo la difesa, il principio di "non discriminazione" sancito nella legge n. 121, nell'interpretazione datane dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1006 del 1988, comporta la legittimità di obblighi chiaramente discriminatori a carico di chi abbia scelto di non avvalersi della religione cattolica, sicché la dichiarazione di illegittimità della disposizione impugnata non solo non "farebbe cadere" ma anzi "ripristinerebbe la piena parità di diritti tra tutti gli alunni non più discriminati dalla necessità di optare tra un insegnamento confessionale ed altre attività alternative coercitivamente imposte".
Già prima dell'emanazione della legge n. 121 - ricorda la difesa delle parti - lo stesso principio di non discriminazione nell'ambito dell'insegnamento religioso era stato limpidamente enunciato all'art. 9 della legge n. 449 del 1984 (concernente la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese), laddove si chiariva che, per dare reale efficacia all'attuazione del diritto di non avvalersi dell’insegnamento religioso, l’ordinamento scolastico doveva provvedere a che tale insegnamento, nelle classi in cui fossero presenti alunni che avessero dichiarato di non avvalersi, non si svolgesse né "in occasione dell'insegnamento di altre materie" né secondo orari che avessero per detti alunni effetti comunque discriminanti.
La successiva "traduzione" amministrativa delle norme contenute nella legge n. 121 del 1985 ha confermato - secondo la difesa - che l'interpretazione accolta dal Pretore di Firenze e fatta propria dal Consiglio di Stato dà luogo a un sistema di "flagrante discriminazione". Infatti a una prima circolare ministeriale (n. 368 del 20 dicembre 1985) - che correttamente si limitava ad affermare che il rispetto del diritto di non avvalersi implica che la scuola assicuri ai non avvalentisi ogni opportuna attività culturale e di studio, con l’assistenza degli insegnanti, escluse le attività curricolari comuni a tutti gli allievi - seguivano varie circolari applicative (nn. 128, 129, 130 e 131 del 3 maggio 1986) volte ad organizzare genericamente le attività alternative nelle scuole materne, elementari e medie e infine la circolare n. 302 del 29 ottobre 1986 nella quale drasticamente si affermava il principio della obbligatorietà della frequenza delle attività integrative anche per i non avvalentisi.
Annullata (con sentenze nn. 1273 e 1274 del 17 luglio 1987) la circolare ministeriale n. 302 del 1986, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio affermava il diritto dei non avvalentisi di allontanarsi dalla scuola sulla base di una correlativa riduzione del normale orario scolastico. Con le ordinanze nn. 578 e 579 del 28 agosto 1987 il Consiglio di Stato, mentre confermava in parte l'esecutività delle suddette sentenze del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sospendeva le stesse decisioni proprio nella parte in cui era stato affermato che ì non avvalentisi potessero allontanarsi dalla scuola. Nelle more del giudizio di appello, la circolare n. 284 del 1987 disponeva che, a parziale modifica della circolare n. 302 e ad integrazione della circolare n. 131 del 3 maggio 1986, "per gli alunni che non si avvalgono dell'insegnamento della religione cattolica né delle attività formative e integrative il genitore o chi esercita la potestà può chiedere di optare per la semplice presenza nei locali scolastici, senza, peraltro, allontanarsene". Con sentenza n. 1006 del 1988 il Consiglio di Stato ha quindi definitivamente sancito l'obbligo per i non avvalentisi di frequentare le ore alternative: si è, con tale interpretazione delle leggi n. 121 del 1985 e n. 449 del 1984, creato, secondo la difesa, un insanabile contrasto non solo con fondamentali principi costituzionali, ma anche con "la più corretta lettura della norma neoconcordataria", risultante, tra l’altro, dai lavori preparatori della legge n. 121, di cui la difesa riporta ampi squarci.
Nell'insistere per la declaratoria di illegittimità costituzionale, la difesa ribadisce che il dettato costituzionale viene violato non dal fatto che nella scuola pubblica s'impartisce l’insegnamento religioso, ma dalla mancata previsione a favore dei non avvalentisi della "possibilità di restare assenti senza per questo essere discriminati", possibilità che "non implicherebbe alcuna violazione (attuale o potenziale) dei diritti degli alunni avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica, ma potrebbe allo stesso tempo efficacemente salvaguardare i diritti degli alunni" non avvalentisi. Naturalmente, precisa la difesa, ciò vale in quanto, in virtù della legge n. 449 del 1984 appare tacitamente abrogata la previgente disciplina della dispensa, prevista dall'art. 6 della legge 24 giugno 1929, n. 1159.
Né, ad avviso della difesa, la
fondatezza delle censure sollevate è scalfita dall’ordinanza della Corte
costituzionale n. 914 del 7 luglio 1988; mentre il Tribunale di Milano
contestava soltanto il vuoto normativo caratterizzante le attività alternative
all'insegnamento religioso, il pretore di Firenze "contesta le norme
neoconcordatarie in quanto suscettibili di portare a un insegnamento religioso
non facoltativo. Ciò che interessa, in questo giudizio, non è [...] la
deficitaria organizzazione delle attività alternative; ma sono, al contrario, le
palesi violazioni che da questa organizzazione derivano per i diritti
fondamentali dei non avvalentisi". Sul punto la difesa richiama la motivazione
della decisione di inammissibilità dell'eccezione sollevata dal Tribunale di
Milano in cui si sottolinea che la medesima si configura come una "generalizzata
censura delle carenze organizzative conseguenti all’attuazione che le norme
impugnate avrebbero ricevuto da una serie di disposizioni amministrative" e che
"l’apprezzamento di situazioni contingenti - anche se per più versi criticabili
- venutesi a creare nella fase di prima applicazione della normativa, non può
essere compiuto nel giudizio di costituzionalità, ove le asserite disparità
siano, come nella specie, ricollegabili all'incompletezza delle ordinanze
ministeriali o addirittura alle concrete scelte tecniche di chi è tenuto a darvi
esecuzione". A differenza della questione sollevata dal Tribunale di Milano -
conclude la difesa - la questione ora all'esame della Corte costituzionale
investe non le "carenze organizzative" ma la stessa "organizzazione" dell'ora
alternativa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Il Pretore di Firenze, con ordinanza del 30 marzo 1987(pervenuta alla Corte costituzionale il 30 settembre 1988, R.O. n. 575/1988), solleva questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, dell'art. 9, punto (recte: numero) 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede) e dell'art. (recte: punto) 5, lettera b), numero 2, del suddetto Protocollo addizionale, nel dubbio ch'essi causerebbero discriminazione a danno degli studenti non avvalentisi dell'insegnamento di religione cattolica "ove non potessero legittimare la previsione dell'insegnamento religioso come insegnamento meramente facoltativo".
2.- Prima di passare al merito, occorre prendere in esame le tre eccezioni di inammissibilità opposte per il Presidente del Consiglio dei ministri dall'Avvocatura dello Stato: a) natura ancipite dell’ordinanza di rimessione; b) difetto di giurisdizione del Pretore in ordine a provvedimenti organizzativi del servizio scolastico; c) improponibilità nel giudizio costituzionale dell'apprezzamento di situazioni contingenti verificatesi in fase di prima e incompleta applicazione della normativa.
L’eccezione sub a) non è nella specie accoglibile, perché il giudice a quo, prospettando anche l’effetto discriminante a danno degli studenti avvalentisi dell'insegnamento di religione cattolica, precisa, proprio per la descritta reciprocità di effetti discriminatori, il thema decidendum, se l’insegnamento di religione cattolica, compreso tra gli altri insegnamenti del piano didattico, con pari dignità culturale, come previsto nella normativa di fonte pattizia, sia o non causa di discriminazione.
Quanto al punto b), versandosi in materia di diritto soggettivo, qual è il diritto di avvalersi o di non avvalersi dell'insegnamento di religione cattolica, non è contestabile la giurisdizione del giudice ordinario, né può assumere rilevanza in questa sede il possibile contenuto del provvedimento di urgenza che il giudice a quo potrebbe adottare.
Per il punto c), il criterio ancor recentemente ribadito da questa Corte (ordinanza n. 914 del 1988) che "l’apprezzamento di situazioni contingenti [...] venutesi a creare nella fase di prima applicazione della normativa, non può essere compiuto nel giudizio di costituzionalità, ove le asserite disparità siano, come nella specie, ricollegabili all’incompletezza delle ordinanze ministeriali o addirittura alle concrete scelte tecniche di chi è tenuto a darvi esecuzione", non è applicabile allo status quaestionis, essendo nel frattempo intervenuta pronuncia del Consiglio di Stato (sentenza n. 1006 del 1988) con l'effetto di consolidare l'assetto organizzatorio scolastico che si lamenta causa di discriminazione a danno di studenti non avvalentisi dell'insegnamento di religione cattolica, obbligati alla frequenza di insegnamenti o di attività alternative.
3.- Questa Corte ha statuito, e costantemente osservato, che i principi supremi dell'ordinamento costituzionale hanno "una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del concordato, le quali godono della particolare copertura costituzionale fornita dall'art. 7, secondo comma, della Costituzione, non si sottraggono all'accertamento della loro conformità ai principi supremi dell'ordinamento costituzionale (v. sentenze n. 30 del 1971, n. 12 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977 e n. 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della C.E.E. può essere assoggettata al sindacato di questa Corte in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana (v. sentenze n.183 del 1973 e n.170 del 1984)" (cfr. sentenza n.1146 del 1988).
Pertanto la Corte non può esimersi dall'estendere la verifica di costituzionalità alla normativa denunziata, essendo indubbiata di contrasto con uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale, dati i parametri invocati, artt. 2, 3 e 19. In particolare, nella materia vessata gli artt. 3 e 19 vengono in evidenza come valori di libertà religiosa nella duplice specificazione di divieto: a) che i cittadini siano discriminati per motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione.
4. - I valori richiamati concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20 della Costituzione), a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica.
Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale. Il Protocollo addizionale alla legge n. 121 del 1985 di ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede esordisce, in riferimento all’art. 1, prescrivendo che "Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano", con chiara allusione all'art. 1 del Trattato del 1929 che stabiliva: "L'Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell'art. 1 dello Statuto del regno del 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato".
La scelta confessionale dello Statuto albertino, ribadita nel Trattato lateranense del 1929, viene così anche formalmente abbandonata nel Protocollo addizionale all'Accordo dei 1985, riaffermandosi anche in un rapporto bilaterale la qualità di Stato laico della Repubblica italiana.
5. - Per intendere correttamente a qual titolo e con quali modalità sia conservato l'insegnamento di religione cattolica nelle scuole dello Stato non universitarie entro un quadro normativo rispettoso del principio supremo di laicità, giova esaminare le proposizioni che compongono il testo del denunciato art. 9, numero 2, della legge n. 121 del 1985.
Nella prima proposizione ("la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado") sono individuabili quattro dati significativi: 1) il riconoscimento del valore della cultura religiosa; 2) la considerazione dei principi del cattolicesimo come parte del patrimonio storico del popolo italiano; 3) la continuità di impegno dello Stato italiano nell'assicurare, come precedentemente all'Accordo, l’insegnamento di religione nelle scuole non universitarie; 4) l‘inserimento di tale insegnamento nel quadro delle finalità della scuola.
I dati sub 1), 2) e 4) rappresentano una novità coerente con la forma di Stato laico della Repubblica italiana.
Con l'art. 36 del Concordato del 1929 ("L'Italia considera fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che L’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie secondo programmi da stabilirsi d'accordo tra la Santa Sede e lo Stato") lo Stato definiva l'insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma della tradizione cattolica, "fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica". La formula "fondamento e coronamento" era apparsa nel regio decreto 1° ottobre 1923, n. 2185, all'art. 3, ed era limitata alla istruzione elementare. Dopo il complesso dibattito dell'età giolittiana e del primo dopoguerra, si ripristina L’insegnamento obbligatorio di religione cattolica nelle scuole elementari, con quella formula dettata dal Ministro della pubblica istruzione Giovanni Gentile, che intendeva la religione fase preparatoria dell'educazione, philosophia minor della mente infantile, destinata ad essere superata nella maturazione successiva. La formula sarà ripetuta, in identico contesto, dall'art. 25 del regio decreto 22 gennaio 1925, n, 432 e dall'art. 27 del regio decreto 5 febbraio 1928, n. 577.
6.- Nella vicenda dello Stato risorgimentale, la legge Casati del 1859, stabilì L’insegnamento obbligatorio di religione cattolica nei ginnasi e licei (art. 193), negli istituti di istruzione tecnica (art. 278), nelle scuole elementari (artt. 315, 325); fino alle minuziose disposizioni degli artt. 66, 67, 68 e 183 del regio decreto 24 giugno 1860, n. 4151 (Regolamento per le scuole normali e magistrali degli aspiranti maestri e delle aspiranti maestre). Significativa l’endiadi "La religione e la morale" con cui era indicata la prima delle nove materie di insegnamento nelle scuole normali governative elencate nell’art. 1 del regio decreto 9 novembre 1861, n. 315 (Regolamento per le scuole normali e magistrali e per gli esami di patente de' maestri e delle maestre delle scuole primarie), cosi come ancora la collocazione al primo posto di "catechismo e storia sacra" tra le materie obbligatorie per gli esami sia scritti sia orali, nell'art.22 dello stesso Regolamento.
Con legge 23 giugno 1877, n. 3918 (Legge che modifica l’ordinamento dei licei, dei ginnasi e delle scuole tecniche), l’ufficio di direttore spirituale in dette scuole è abolito (art. 1); la legge 15 luglio 1877, n. 3961 (Legge sull'obbligo dell'istruzione elementare), introduce nel corso elementare inferiore "le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino", materia estesa dieci anni dopo ai due gradi dell'insegnamento elementare dall'art. 1 del regio decreto 16 febbraio 1888, n. 5292 (Regolamento unico per l'istruzione elementare), che all'art. 2 stabilisce, in sintomatica correlazione con il disposto dell'art. 1, che L’insegnamento religioso, fin allora obbligatorio, sarà fatto impartire solo "a quegli alunni, i cui genitori lo domandino". Codesto sistema, della religione a domanda dei genitori, sarà confermato nei due regolamenti generali per l’istruzione elementare del 1895 (art. 3 del regio decreto 9 ottobre 1895, n. 623) e del 1908 (art. 3 del regio decreto 6 febbraio 1908, n. 150). Quest'ultima norma, al secondo comma, prevedeva finanche l'insegnamento religioso "a cura dei padri di famiglia che lo hanno richiesto", quando la maggioranza dei consiglieri comunali non credesse di ordinarlo a carico del Comune.
7. - Esaurito il ciclo storico, prima, della strumentale utilizzazione della religione come sostegno alla morale comune, poi della opposizione positivistica tra religione e scienza, quindi della eticità dello Stato totalitario, allontanati gli ultimi relitti della contesa risorgimentale tra Monarchia e Papato, la Repubblica può, proprio per la sua forma di Stato laico, fare impartire l'insegnamento di religione cattolica in base a due ordini di valutazioni: a) il valore formativo della cultura religiosa, sotto cui s'inscrive non più una religione, ma il pluralismo religioso della società civile; b) l’acquisizione dei principi del cattolicesimo al "patrimonio storico del popolo italiano".
Il genus ("valore della cultura religiosa") e la species ("principi del cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano") concorrono a descrivere l’attitudine laica dello Stato-comunità, che risponde non a postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini.
L'insegnamento della religione cattolica sarà impartito, dice l’art. 9, "nel quadro delle finalità della scuola", vale a dire con modalità compatibili con le altre discipline scolastiche.
8. - La seconda proposizione dell'art. 9, numero 2, della legge n. 121 del 1985 ("Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento") è di gran lunga la più rilevante dal punto di vista costituzionale.
Vi si richiama, in tema di insegnamento della religione cattolica, il rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, che trovano tutela nella Costituzione della Repubblica rispettivamente agli artt. 19 e 30.
Ma dinanzi ad un insegnamento di una religione positiva impartito "in conformità alla dottrina della Chiesa", secondo il disposto del punto 5, lettera a), del Protocollo addizionale, lo Stato laico ha il dovere di salvaguardare che non ne risultino limitate la libertà di cui all'art. 19 della Costituzione e la responsabilità educativa dei genitori di cui all'art. 30.
Torna qui la logica strumentale propria dello Stato-comunità che accoglie e garantisce l'autodeterminazione dei cittadini, mediante il riconoscimento di un diritto soggettivo di scelta se avvalersi o non avvalersi del predisposto insegnamento della religione cattolica.
Tale diritto ha come titolari i genitori e, per le scuole secondarie superiori, direttamente gli studenti, in base all'art. 1, punto 1, della legge 18 giugno 1986, n. 281 (Capacità di scelte scolastiche e di iscrizione nelle scuole secondarie superiori).
Siffatta figura di diritto soggettivo non ha precedenti in materia.
Nella legge Casati del 1859, all'art. 227, per i ginnasi e i licei era prevista la dispensa "dal frequentare l'insegnamento religioso e dall’intervenire agli esercizi che vi si riferiscono" per gli alunni acattolici o per quelli "il cui padre, o chi ne fa legalmente le veci, avrà dichiarato di provvedere privatamente all’istruzione religiosa dei medesimi".
L'art. 374 della stessa legge riconosceva la dispensa per gli allievi delle scuole pubbliche elementari "i cui parenti avranno dichiarato di prendere essi stessi cura della loro istruzione religiosa".
Nel 1865, con il regio decreto n. 2498 del 1° settembre (Regolamento per le scuole mezzane e secondarie del Regno), all'art. 61 si disponeva: "Gli alunni debbono assistere alle funzioni religiose, se non hanno ottenuta regolare dispensa dal Preside o Direttore, sopra domanda per iscritto del padre dell'alunno o di chi legalmente lo rappresenta".
Dal 1888, con regio decreto 16 febbraio n. 5292 (Regolamento unico per l'istruzione elementare), L’insegnamento di religione diveniva non più obbligatorio, ma istituibile dai Comuni solo su richiesta dei genitori. Nella restaurazione dell'insegnamento di religione nelle scuole elementari del 1923, ricompariva, all'art. 3 del regio decreto 1° ottobre n. 2185, la esenzione per i fanciulli "i cui genitori dichiarano di volervi provvedere personalmente".
L’art. 112 del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare, aggiungeva l’ulteriore onere, per i genitori che chiedevano la dispensa così motivata, di indicare in che modo avrebbero provveduto alla istruzione provata di religione.
Il meccanismo della dispensa perdeva in seguito l’onere della motivazione, estendendosi il regime predisposto per i culti ammessi a tutti gli studenti. L’art. 6 ella legge 24 giugno 1929, n. 1159 (Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi), stabiliva: "I genitori o chi ne fa le veci possono chiedere la dispensa per i propri figli dal frequentare i corsi di istruzione religiosa nelle scuole pubbliche". [cfr. anche l’art. 23 del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289 (Norme per l’attuazione della legge 24 giugno 1929, n. 1159, sui culti ammessi nello Stato e per il coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato)].
La legge 5 giugno 1930, n. 824 (insegnamento religioso negli istituti medi d’istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica e artistica), all’art. 2 disponeva, infine: "Sono dispensati dall’obbligo di frequentare l’insegnamento religioso gli alunni, i cui genitori, o chi ne fa le veci, ne facciano richiesta per iscritto al capo dell’istituto all’inizio dell’anno scolastico".
E’ palese il passaggio da motivazioni proprie dell’età liberale (essere la religione affare privato e l’istruzione religiosa compito elettivamente paterno) a quelle dello stato etico (essere la religione un connotato dell’identità nazionale da farsi maturare nella scuola di Stato).
Solo con l’Accordo del 18 febbraio 1984 emerge un carattere peculiare dell’insegnamento di una religione positiva: il poter suscitare, dinanzi a proposte di sostanziale adesione ad una dottrina, problemi di coscienza personale e di educazione familiare, per evitare i quali lo Stato laico chiede agli interessati un atto di libera scelta.
Con la terza proposizione dell’art. 9, numero 2, dell’Accordo ("All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione") il principio di laicità è in ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.
Il punto 5, numero 2, del Protocollo addizionale, no contiene disposizione immediata pertinente alla questione di causa e pertanto la fonte della doglianza non è rinvenibile nella normativa impugnata.
9.- La previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perché proposta in luogo dell’insegnamento di religione cattolica, quasi corresse tra l’una e l’altro lo schema logico dell’obbligazione alternativa, quando dinanzi all’insegnamento di religione cattolica si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di coscienza, ad opzione fra equivalenti discipline scolastiche.
Lo Stato è obbligato, in forza dell’Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica. Per gi studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo.
Per quanti decidano di non avvalersene l’alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata nei sensi di
cui in motivazione la questione di legittimità costituzionale, in riferimento
agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, dell’art. 9, punto (recte: numero) 2,
della legge 25 marzo 1985, n. 121 (ratifica ed esecuzione dell’accordo, con
protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta
modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica
italiana e la Santa Sede), e dell’art. (recte: punto) 5, lettera b), numero 2,
del protocollo addizionale, sollevata dal Pretore di Firenze con l’ordinanza in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 aprile 1989.
Il Presidente: SAJA
Il redattore: CASAVOLA
Il cancelliere: MINELLI
Depositata in cancelleria il 12
aprile 1989
Il direttore della cancelleria: MINELLI
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Sentenza Corte Costituzionale 11-12.4.1989: commento
Sentenza 11-12.4.1989 della Corte Costituzionale n. 203
in materia di obbligo delle "attività alternative all'IRC
schema, incompleto e non rifinito, presentato alla classe dal docente Dentoni come guida
alla lettura analitica del testo della sentenza
giudizio sulla legittimità costituzionale della L. 121/85 nel punto in cui l'insegnamento religioso non è esplicitamente indicato come facoltativo
Il pretore di Firenze ha ritenuto,
accogliendo in parte le richieste dei ricorrenti, che in tale situazione vi
potesse essere violazione dell'art. 19 della Costituzione, che "garantisce la
libertà di fede religiosa intesa in senso lato e comprensiva di ogni convinzione
a tale riguardo, compresa la libertà di non professare ed esercitare alcuna fede
e quindi anche la libertà dall'onere della presenza nella scuola o dalla
frequenza di insegnamenti alternativi per chi non ha scelto l'insegnamento
religioso
ARGOMENTI DELLE DUE PARTI [= fatto]
Tramite l'Avvocatura dello Stato il Governo si è opposto con questi argomenti:
a) la domanda di legittimità non è bene individuata
b) l'oggetto non riguarda le leggi (per cui si va alla Corte Costituzionale), ma un provvedimento amministrativo (per cui si va al TAR [al TAR ci si era già andati, ma il Consiglio di Stato, che è un TAR supremo aveva pronunciato la nota sentenza del 1988])
c) la Corte Costituzionale stessa, in una precedente sentenza, aveva detto che in situazioni di assestamento e avvio di nuove normative non si può fare ricorso per legittimità costituzionale
d) il governo si era impegnato (nell'ottobre 1987) a lasciare comunque la libertà allo studente di non usufruire delle attività alternative (sia pure nel pieno rispetto del vincolo dell'orario scolastico [cioè tenendo a scuola lo studente]) e quindi non vi è nessuna obbligatorietà contro cui protestare
e) è allo studio un disegno di legge per fare sì che nessuno abbia di più o di meno (dalla scuola) a seconda della scelta operata
f) del resto, la religione cattolica è insegnata sulla base del Concordato, che è inserito nella Costituzione. Quindi, se la religione cattolica ha una posizione privilegiata nella scuola rispetto alle altre religioni, questo non è violazione della Costituzione, perché fra i principi costituzionali non vi è l'esigenza di trattare in modo identico tutte le confessioni religiose [notare con quale sfacciata insistenza il governo italiano, che sarebbe il governo di tutti i cittadini, si mostra esplicitamente favorevole ad una parte di essi. Se il governo, in sede giuridica, sostenesse che lo stato guarda con maggiore favore coloro che usano auto Fiat anziché auto di altre marche, tutti direbbero che ha perso non solo il senso dello stato, ma completamente il senno]
g) e la violazione della costituzione non c'è anche per il fatto che la fede cattolica è professata dalla maggior parte degli italiani [affermazione questa, della "maggioranza" che non c'è nel concordato, e che è poi a doppio taglio: qualcuno ha delle statistiche credibili? o all'anagrafe si prende nota della religione professata dai cittadini? e il giorno che i cattolici non fossero la maggioranza, cadrebbe automaticamente l'insegnamento della religione cattolica?]
h) in definitiva, mica è vietato non scegliere l'insegnamento della religione cattolica: "addirittura si concede il diritto di scelta" [!!]: non si vede dove è la violazione
Fin qui il governo. Siccome poi la Corte Costituzionale riterrà assolutamente infondate queste argomentazioni del governo, c'è da riflettere seriamente come mai un organismo di tale rilevanza costituzionale come il governo della repubblica si sia trovato sulla barricata sbagliata: contro la Costituzione e non a favore dei principi costituzionali. In che mani siamo [o eravamo] nel 1989 (ma vi sono forti ragioni per ritenere che le cose non siano cambiate nemmeno oggi)?
Invece i ricorrenti hanno sostenuto:
a) la sentenza 1988 del Consiglio di Stato ha detto che non è illegittimo (infatti ha annullato la sentenza del TAR) l'obbligo di seguire le attività alternative: dunque o era giusta (non incostituzionale) la legge e sbagliata (illegittima) la circolare del ministro, o era legittima la circolare del ministro e quindi incostituzionale la legge. Ma siccome il Consiglio di Stato ha detto che la circolare è legittima, non rimane che da considerare incostituzionale la legge che sta dietro quella circolare [da notare che la Corte Costituzionale dirà che la legge non è incostituzionale, ma che da quella legge non è possibile che segua quella circolare: quindi non darà una interpretazione giuridica diversa delle legge, ma si limiterà a dire che il Consiglio di Stato ha semplicemente fatto un ragionamento diametralmente errato]
b) la legge 449/84 (intesa con i Valdesi) aveva limpidamente posto il principio della non discriminazione ("ogni insegnamento religioso deve essere svolto non in occasione di altre materie, e secondo orari non discriminanti")
c) ma la traduzione amministrativa della legge 121/85 aveva istituito un sistema di flagrante discriminazione: da una circolare 368/85 che offriva (correttamente) opportunità di studio per i non avvalentisi con assistenza dei docenti ma escludendo attività curricolari comuni, seguivano altre circolari applicative (128-131(86) che organizzavano materie alternative, fino a che la circolare 302/86 rendeva tali insegnamenti alternativi obbligatori.
d) il TAR del Lazio annullava la circolare 302/86, autorizzando gli studenti non avvalentisi ad allontanarsi dalla scuola; ma questa ultima disposizione era sospesa con ordinanze 578-579 del 28.8.87 del Consiglio di Stato. In attesa di sentenza definitiva una circolare (284/87) ammetteva la possibilità, per gli studenti non avvalentisi, della semplice presenza nei locali scolastici, senza allontanarsene [=nessuna attività]. Poi il Consiglio di Stato (1006/88) sanciva definitivamente l'interpretazione della Legge 121/85 nel senso dell'obbligo delle attività alternative.
e) Questa sentenza del Consiglio di Stato rende la L.121/85 insanabilmente in contrasto con i principi costituzionali, oltre ad averne stravolto il senso originario, come risulta peraltro dalle discussioni e dalle dichiarazioni che si sono fatte in parlamento in sede di approvazione della Legge 121/85
f) in conclusione, la costituzione è violata non per il fatto che nella scuola pubblica si impartisce l'insegnamento religioso, ma per il fatto che non si prevede per i non avvalentisi alcuna possibilità di restare assenti senza per questo essere discriminati [infatti, abolita la precedente normativa sulla "dispensa", lo studente non avvalentisi è sottoposto ad obblighi che derivano da scelte altrui]
g) una precedente sentenza della
Corte Costituzionale [914/88: la stessa citata nel punto c) degli argomenti del
Governo] non dice nulla in contrario: riguardava infatti solo le situazioni
iniziali di assestamento delle normative, mentre qui siamo di fronte alla
sistemazione definitiva
CONSIDERAZIONI DELLA CORTE [=diritto]
1) brevissimo riepilogo dell'origine dell'istanza
2) Le tre eccezioni di inammissibilità vengono respinte
a) il tema è ben chiaro: c'è o no discriminazione?
b) non è tema amministrativo ma del giudice ordinario (diritti soggettivi, e non diritti legittimi)
c) la precedente sentenza della Corte [914/1988] riguardava disparità di trattamento relative unicamente a incompletezza iniziale delle norme: qui invece il caso è diverso
3. Principio fondamentale, che la Corte ha osservato da sempre: il fatto che l'insegnamento della religione cattolica sia garantito dal concordato, il quale a sua volta è inserito dentro la costituzione non rende gli argomenti concordatari automaticamente costituzionali, e quindi insindacabili dalla Corte Costituzionale: anche il contenuto del Concordato non si sottrae all'accertamento della conformità ai principi supremi dell'ordinamento costituzionale. Quindi anche ora la Corte Costituzionale deve intervenire per valutare
a) se i cittadini sono discriminati per motivo di religione;
b) che il pluralismo religioso non limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione.
4) Qui è in gioco "il supremo
principio della laicità dello Stato", che è uno dei caratteri che la
Costituzione ha dato alla Repubblica Italiana. "Laicità non significa..... "
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Sentenza n.
13 del 11 gennaio 1991
Trascrizione integrale dalla Gazzetta Ufficiale della sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha spiegato il senso esatto della precedente sua sentenza 1989, dichiarando che gli studenti non avvalentisi dell’IRC hanno diritto a non essere trattenuti nei locali scolastici, e indirettamente dichiarando anticostituzionali i provvedimenti del Ministero della pubblica istruzione emanati dopo la sentenza del 1989]
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. Giovanni CONSO, Presidente - Prof. Ettore GALLO - Dott. Aldo CORASANITI - Prof. Giuseppe BORZELLINO - Dott. Francesco GRECO - Prof. Gabriele PESCATORE - Avv. Ugo SPAGNOLI - Prof. Francesco Paolo CASAVOLA - Prof. Antonio BALDASSARRE - Prof. Vincenzo CAIANIELLO - Avv Mauro FERRI - Prof. Luigi MENGONI - Prof. Enzo CHELI - Dott. Renato GRANATA, Giudici,
ha pronunciato · la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell'att. 9, numero 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121
(Ratifica ed esecuzione dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma
il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11
febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), e del punto 5,
lettera b), numero 2, del relativo Protocollo addizionale, promosso con
ordinanza emessa il 4 maggio 1990 dal Pretore di Firenze nei procedimenti civili
riuniti vertenti tra Sommani Letizia ed altri e Amministrazione scolastica ed
altro, iscritta al n. 477 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell'anno 1990.
Visto l'atto di costituzione di Sommani Letizia ed altri, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica dell'11 dicembre 1990 il giudice relatore Francesco Paolo Casavola;
uditi gli avvocati Stefano Grassi, Carlo Mezzanotte, Corrado Mauceri, per Sommani Letizia ed altri e l’Avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di due procedimenti ex art. 700 del codice di procedura civile, in cui le parti avevano richiesto la declaratoria d'illegittimità degli orari scolastici adottati nelle scuole elementari e medie statali frequentate dai loro figli, nella parte in cui l'insegnamento della religione era collocato nel novero delle ore obbligatorie, sull'assunto dell'inesistenza di un obbligo dei minori a rimanere a scuola durante tale insegnamento, il Pretore di Firenze, riuniti i procedimenti, con ordinanza del 4 maggio 1990, ha sollevato, in relazione agli artt. 2, 3, 19 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, numero 2, della legge 25 marzo 1985 n. 121, e del punto 5, lettera b), numero 2, del relativo Protocollo addizionale.
Ricorda il giudice a quo di aver sollevato, in analogo giudizio, identica questione con una precedente ordinanza, a seguito della quale venne emessa la sentenza n. 203 del 1989 dichiarativa della non fondatezza della questione. Premessa l'affermazione della propria giurisdizione, sulla base di un esplicito riconoscimento, sul punto, della citata sentenza, il Pretore rimettente rileva che la Corte omise di prendere in esame la prospettazione, "pur diffusamente motivata", concernente la collocazione dell'insegnamento religioso nell'ambito dell'orario scolastico obbligatorio. I problemi conseguenti sarebbero perciò rimasti insoluti, a fortiori a seguito della circolare n. 188 del 25 maggio 1989 con cui il Ministero della pubblica istruzione ha offerto agli studenti non avvalentisi la scelta tra: 1) attività didattiche e di formazione; 2) di studio e/o di ricerca individuali; 3) nessuna attività (precisando, con successiva circolare n. 189 del 29 maggio 1989, che soltanto l'attività di cui sub 2 viene espletata con l’assistenza del personale docente).
La collocazione dell'insegnamento nell'ambito dell'orario ordinario comporterebbe per i non avvalentisi l'obbligo di rimanere a scuola, nonché - con particolare riguardo alla scuola elementare - la riduzione del numero di ore disponibili per la normale attività didattica.
L'impugnata normativa - in quanto così interpretata - risulterebbe, a parere del giudice a quo, lesiva: 1) dell'art. 2 a causa del pregiudizio derivante, nell'ambito della formazione sociale-scuola, al libero sviluppo della personalità del minore; 2) dell'art. 3 per la discriminazione tra avvalentisi e non; 3) dell'art. 19 per il vulnus alla libertà religiosa, intesa come libertà di non professare ed esercitare alcuna fede; 4) dell'art. 97, in quanto idonea a compromettere il buon andamento dell'amministrazione mantenendo nella "inazione totale" gli allievi affidati alla scuola per finalità educative e riducendo - in taluni casi - anche l’ambito degl'insegnamenti curriculari.
2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità ovvero per l'infondatezza della questione. Sotto il primo profilo si eccepisce anzitutto il difetto di rilevanza in quanto si richiederebbe alla Corte una sorta di parere circa la portata della denunziata normativa (peraltro irrilevante nel giudizio a quo) e si sostiene, in secondo luogo, che il Pretore rimettente sarebbe privo di giurisdizione.
Nel merito si sottolinea, in atto d'intervento, come l'insegnamento religioso debba considerarsi - alla stregua della sentenza n. 203 del 1989 - quale elemento per la realizzazione dei fini della scuola, non diverso da altre materie. Nessun obbligo potrebbe mai essere tollerato - secondo 1'Avvocatura - come conseguenza della scelta di avvalersi dell'insegnamento religioso, sì che chi abbia deciso di avvalersene non può essere trattenuto un'ora in più e la religione va considerata materia curriculare come le altre, entrando a formare quel tempo ritenuto globalmente necessario per l’istruzione.
L’Avvocatura conclude escludendo che le circolari ministeriali di cui sostanzialmente si duole il giudice a quo incidano sulla libertà religiosa, proprio in quanto non discriminano (trovandosi conferma di tale ratio nel dibattito parlamentare successivo alla sentenza della Corte) ed anzi, superando il precedente sistema dell'"esonero" - che conduceva alla sostanziale emarginazione dell'alunno - e non consentendo l'allontanamento dalla scuola del non avvalentesi, considerano quest'ultimo permanentemente inserito nella comunità scolastica.
3. - Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono costituite alcune delle parti private depositando una memoria in cui viene chiesta la declaratoria d'illegittimità costituzionale delle norme censurate.
4. - Successivamente, nell'imminenza dell'udienza, hanno presentato memorie 1'Avvocatura dello Stato e le parti private.
5. - L’Avvocatura ha insistito anzitutto nelle proprie eccezioni d'inammissibilità, sottolineando l'identità della questione rispetto a quella a suo tempo dal medesimo Pretore sollevata e decisa con la sentenza n. 203 del 1989. Dopo un ampio excursus sull'argomento, si pone in evidenza come l'art. 9 dell’Accordo 18 febbraio 1984 assicuri l'insegnamento in parola nel quadro delle finalità della scuola, onde la religione va insegnata a scuola ed agli alunni e non fuori dell'orario curriculare, ovvero semplicemente nei locali della scuola a ragazzi in età scolare. La collocazione dell'insegnamento non sarebbe quindi a margine o in appendice all'orario delle lezioni, ma dovrebbe formarne parte integrante, in sintonia con l'esplicito riconoscimento legislativo del valore della cultura religiosa e della coincidenza dei principi del cattolicesimo con parte del patrimonio storico italiano.
Pertanto I'organizzazione dell'insegnamento precederebbe logicamente il momento della scelta e ne prescinderebbe, non potendo essa dipendere, come un corso privato di catechesi, dall'impulso del singolo. L'impostazione di tale organizzazione in termini di non-discriminazione comporterebbe la necessità di assicurare la parità di trattamento tra avvalentisi e non; di qui I'importanza dell'Intesa di cui al d.P.R. 16 dicembre 1985, n.751.
Dal principio di laicità sancito da questa Corte deriverebbe poi l'impossibilità di concepire un insegnamento religioso impartito in modi tali da scoraggiare chi decida di avvalersene: in questi ultimi termini andrebbe infatti inquadrata l’alternativa di un'ora di "libertà" (che incoraggerebbe di fatto il disimpegno), laddove i diritti dei non avvalentisi non verrebbero all'opposto vulnerati dalla mancanza della facoltà di assentarsi da scuola.
In conclusione la scuola resterebbe unitaria anche in presenza dell'esercizio di opzioni diverse e, ove queste riguardino il desiderio di non avvalersi dell'insegnamento religioso, non per questo possono tradursi in una riduzione del tempo scuola, già individuato legislativamente in quanto necessario alle finalità educative.
6. - Le parti private escludono anzitutto che il Pretore abbia sottoposto alla Corte una richiesta alternativa d'interpretazione, richiamando viceversa la chiarezza della questione concernente l'illegittimità di un obbligo di presenza passiva imposto ai non avvalentisi.
Nel merito la difesa, riportando la motivazione della sentenza n. 203 del 1989 più volte citata, ricorda come le precedenti circolari ministeriali avessero degradato l’insegnamento religioso da facoltativo ad opzionale, sì che a seguito della decisione della Corte sarebbe dovuta risultare pacifica la collocazione dell'insegnamento dello stesso al di fuori dell'orario obbligatorio.
In effetti la Camera dei deputati, con la risoluzione del maggio 1989, avrebbe preso atto dell'assenza di una disciplina positiva atta a regolare l’attività degli alunni non avvalentisi. Tale vuoto sarebbe stato riempito - a parere delle parti - dalle circolari ministeriali n. 188 e n. 189 del 1989, sostanzialmente volte a riproporre lo schema dell'opzione alternativa, anche se in esse non è mai esplicitamente affermato l’obbligo da parte dei non avvalentisi di effettuare la scelta tra le diverse attività offerte.
La giurisprudenza amministrativa ed ordinaria avrebbe invece in prevalenza ritenuto insussistente l'obbligo di restare comunque a scuola, traendo, sia pure con diverse ottiche, tale conclusione dalle affermazioni di questa Corte (che legittimerebbero la qualificazione dell'insegnamento religioso come insegnamento in più).
Nel nostro ordinamento scolastico - rileva poi la difesa - non esiste un orario obbligatorio di permanenza a scuola, ma un orario obbligatorio di attività didattiche, sì che l'esonero da un insegnamento esclude l'obbligo di presenza. Parimenti pacifica sarebbe l’esistenza di un tempo-scuola differenziato (orari flessibili e diversificati, tempo normale o prolungato, ecc.) non uniforme ma viceversa sempre corrispondente agl'insegnamenti che si frequentano.
In conclusione l’obbligo di
permanenza dei non avvalentisi non potrebbe essere riguardato come garanzia di
non discriminazione per chi sceglie l'insegnamento (il quale esercita viceversa
un diritto, garantito dallo Stato ed organizzato a spese della collettività) e
la sua esclusione parrebbe il logico corollario della sentenza n. 203 del 1989,
la quale, a parere delle parti private, non può aver sanzionato l'illegittimità
dell'insegnamento alternativo obbligatorio per poi legittimare lo "studio
individuale" ovvero altre forme di presenza.
Considerato in diritto
1. - Il Pretore di Firenze, con ordinanza del 4 maggio 1990 (R.O. n. 477 del 1990), in riferimento agli artt. 2, 3, 19 e 97 della Costituzione, solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, numero 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121, e del punto 5, lettera b), numero 2, del relativo Protocollo addizionale, per duplice discriminazione negativa derivante dalla collocazione dell'insegnamento di religione cattolica nell'ordinario orario delle lezioni ai non avvalentisi, sia in quanto obbligati a rimanere inattivi nella scuola durante l'insegnamento della religione cattolica, sia per la riduzione di altra attività didattica per lo spazio temporale riservato al detto insegnamento.
2. - I1 Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, eccepisce nell'atto di intervento la inammissibilità della questione per due motivi: a) non prendendo posizione il Pretore rimettente in ordine alla interpretazione delle norme denunciate, non risulta quale sia la rilevanza della questione nel giudizio a quo; b) versando la doglianza di parte sull'assetto organizzatorio derivante da circolari ministeriali, e dunque in materia di competenza del giudice amministrativo, risulterebbe difetto di giurisdizione del Pretore rimettente.
La prima eccezione è superabile se si considera che il petitum mira ad ottenere una più ampia individuazione della portata del concetto di "stato di non-obbligo" degli studenti non avvalentisi dell'insegnamento di religione cattolica, con conseguenze circa la legittimità del regime di non discriminazione introdotto dall'Amministrazione della pubblica istruzione.
Quanto alla seconda eccezione, questa Corte ribadisce che, "versandosi in materia di diritto soggettivo, qual è il diritto di avvalersi o di non avvalersi dell'insegnamento di religione cattolica, non è contestabile la giurisdizione del giudice ordinario" (sentenza n. 203 del 1989).
3. - Ferma restando la ratio di quella sentenza, nel senso che "l'insegnamento di religione cattolica, compreso tra gli altri insegnamenti del piano didattico, con pari dignità culturale, come previsto nella normativa di fonte pattizia", non è causa di discriminazione e non contrasta - essendone anzi una manifestazione - col principio supremo di laicità dello Stato, il thema decidendum in ordine alla questione ora sollevata si circoscrive attorno alla portata dello "stato di non-obbligo" degli studenti che scelgono di non avvalersi dell'insegnamento di religione cattolica.
Come stabilito dalla sentenza n. 203 del 1989, "la previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perché proposta in luogo dell'insegnamento di religione cattolica, quasi corresse tra l'una e l’altro lo schema logico dell'obbligazione alternativa [...]. Per quanti decidano di non avvalersene l'alternativa è uno stato di non-obbligo".
Per corrispondere al non-obbligo, l’Amministrazione ha predisposto, con circolari n. 188 del 25 maggio 1989 e n. 189 del 29 maggio 1989, moduli sia per la scelta di avvalersi o non avvalersi dell'insegnamento di religione cattolica sia per la scelta ulteriore, da parte dei non avvalentisi, di: a) attività didattiche e formative; b) attività di studio e/o di ricerca individuali con assistenza di personale docente; c) nessuna attività, che l’Amministrazione interpreta come libera attività di studio e/o ricerca senza assistenza di personale docente.
È evidente che tale modulazione di scelta nell'intento dell’Amministrazione aveva per fine la realizzazione di un contenuto liberamente voluto cosi da non contraddire ma anzi fedelmente tradurre lo "stato di non-obbligo".
Per coloro tuttavia che non esercitino nessuna delle tre scelte proposte sorge questione se lo "stato di non-obbligo" possa avere tra i suoi contenuti anche quello di non presentarsi o allontanarsi dalla scuola.
4. - Occorre qui richiamare il valore finalistico dello "stato di non-obbligo", che è di non rendere equivalenti e alternativi l'insegnamento di religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall'esterno della coscienza individuale l'esercizio di una libertà costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l'interiorità della persona.
Non è pertanto da vedere nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi una causa di disincentivo per le future scelte degli avvalentisi, dato che le famiglie e gli studenti che scelgono l'insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall'offerta di opzioni diverse. Va anzi ribadito che dinanzi alla proposta dello Stato alla comunità dei cittadini di fare impartire nelle proprie scuole L’insegnamento di religione cattolica, l'alternativa è tra un sì e un no, tra una scelta positiva ed una negativa: di avvalersene o di non avvalersene. A questo punto la libertà di religione è garantita: il suo esercizio si traduce, sotto il profilo considerato, in quella risposta affermativa o negativa. E le varie forme di impegno scolastico presentate alla libera scelta dei non avvalentisi non hanno più alcun rapporto con la libertà di religione.
Lo "stato di non-obbligo" vale dunque a separare il momento dell'interrogazione di coscienza sulla scelta di libertà di religione o dalla religione, da quello delle libere richieste individuali alla organizzazione scolastica.
5. - Alla stregua dell’attuale organizzazione scolastica è innegabile che lo "stato di non-obbligo" può comprendere, tra le altre possibili, anche la scelta di allontanarsi o assentarsi dall'edificio della scuola.
Quanto alla collocazione dell'insegnamento nell'ordinario orario delle lezioni, nessuna violazione dell'art. 2 della Costituzione è ravvisabile. Questa Corte ha già sottolineato nella sentenza n. 203 del 1989 che "l'insegnamento della religione cattolica sarà impartito, dice l'art. 9 (scil. della legge 25 marzo 1985, n. 121) "nel quadro delle finalità della scuola", vale a dire con modalità compatitili con le altre discipline scolastiche" .
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata nei sensi di
cui in motivazione la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9,
numero 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione
dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984,
che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra
la Repubblica italiana e la Santa Sede), e del punto 5, lettera b), numero 2,
del relativo Protocollo addizionale, sollevata, in relazione agli artt. 2, 3, 19
e 97 della Costituzione, dal Pretore di Firenze con l’ordinanza di cui in
epigrafe.
Cosi deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 1'11 gennaio 1991.
F.to: Giovanni CONSO, Presidente
Francesco Paolo CASAVOLA, Redattore
Doro MINELLI, Cancelliere
Depositata in cancelleria il 14
gennaio 1991.
I1 Direttore della Cancelleria
F.to: MINELLI
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